C'è una sorta di disperazione nei personaggi ai quali sono interessato. Si trovano tutti quanti in uno stato di estrema tensione in una situazione tesissima. E nel corso dei miei film, esploriamo tutte le loro paure: quelle razionali e quelle irrazionali.
La tensione e la paura: è l'ideale fil rouge - o piuttosto un filo nerissimo - che sembra percorrere l'intera carriera di uno dei più talentuosi ed apprezzati cineasti d'America, William Friedkin. Una produzione, quella del regista di Chicago, contraddistinta da una sorprendente coerenza interna, un'organicità che permette di cogliere facilmente i tratti di una poetica ben definita; una poetica a cui Friedkin è rimasto invariabilmente fedele, che ciò significasse andare incontro a giganteschi successi o a colossali flop.
Oggi il regista americano, con nonni ucraini e radici ebraiche, festeggia ottant'anni: un traguardo significativo, ma che nel suo caso non corrisponde ad una meritata 'pensione'. Friedkin, al contrario, pare impaziente di tornare sul set: dopo aver pubblicato, due anni fa, un'autobiografia dal titolo The Friedkin Collection, ora si prepara a dirigere The Winter of Frankie Machine, un crime drama basato sull'omonimo romanzo di Don Winslow, con protagonista nientemeno che Robert De Niro nei panni di un sicario professionista. Friedkin, del resto, ha sempre mostrato una predilezione per personaggi e storie di questo tipo: non a caso quasi tutti i suoi film, in un modo o nell'altro, sono dedicati alla descrizione dei lati oscuri dell'animo umano, ponendo sul piatto dilemmi morali affrontati con crudezza e disincanto, senza risposte facili o rassicuranti. È uno dei motivi, forse, per cui la filmografia di Friedkin ha conosciuto alterne fortune, benché diverse sue pellicole siano state poi rivalutate con il tempo.
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Dall'esordio con Sonny & Cher al Leone d'Oro alla carriera
Formatosi nel campo dei documentari e della televisione, nel 1965 William Friedkin viene ingaggiato per dirigere un episodio della serie The Alfred Hitchcock Hour. Due anni più tardi, l'esordio al cinema con un progetto a dir poco bizzarro: Good Times, un lungometraggio composto da sketch e numeri musicali che vedono al centro della scena Sonny Bono e una giovanissima Cher, conosciuti all'epoca come Sonny & Cher. "Ho fatto film migliori, ma non mi sono mai divertito così tanto", dichiarerà in seguito Friedkin a proposito del suo debutto.
Dopo Festa di compleanno (1968), trasposizione del dramma teatrale di Harold Pinter (la realizzazione di un grande sogno professionale per Friedkin), e la commedia musicale Quella notte inventarono lo spogliarello (1969), è nel 1970 che il regista di Chicago ottiene il suo primo vero successo, benché si tratti di un successo totalmente inaspettato: Festa per il compleanno del caro amico Harold, adattamento della controversa pièce teatrale The Boys in the Band di Mart Crowley. Un dramma da camera con protagonisti personaggi omosessuali, coinvolti in un'impietosa autoanalisi durante una festa di compleanno in un appartamento di New York; un film che oggi può apparire datato per certi aspetti, ma che riveste un'importanza fondamentale nell'evoluzione del cosiddetto cinema queer.
Del resto, gran parte dell'itinerario artistico di Friedkin è legato al connubio fra il grande schermo e il teatro, come ci ricordano anche i suoi ultimi due film in ordine di tempo, tratti entrambi da testi teatrali del drammaturgo Tracy Letts: Bug (2006), un horror dal taglio psicologico con Ashley Judd e Michael Shannon, troppo atipico e disturbante per poter sbancare il box office (e infatti è stato un sostanziale fiasco), e Killer Joe (2011), un thriller virato verso la black comedy, accolto con numerosi applausi al Festival di Venezia, tanto da aver contribuito al rilancio di Matthew McConaughey, formidabile nel ruolo del titolo accanto al co-protagonista Emile Hirsch. E proprio a Venezia, nel 2013, William Friedkin è stato insignito del prestigioso Leone d'Oro alla carriera, a coronamento di un body of work di indubbio valore. Un lavoro, per l'appunto, che oggi anche noi vogliamo celebrare ricordando cinque cult movie diretti da Friedkin e consacrati (sebbene non tutti con la stessa rapidità) come cinque autentici classici del cinema americano degli anni Settanta e Ottanta.
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1. Per le strade di New York: Il braccio violento della legge
Un punto d'arrivo del cinema poliziesco, ma anche una delle "opere di rottura" che hanno contribuito alla definizione del movimento della New Hollywood, in virtù di un grado di durezza e di realismo tutt'altro che scontati per quegli anni: Il braccio violento della legge (in originale The French Connection), un film diretto da Friedkin per la Fox nel 1971 a partire da un libro inchiesta di Robin Moore a proposito del traffico di droga tra la Francia e gli Stati Uniti. Ambientato fra le strade di New York, tetro scenario metropolitano di una lotta spietata e senza quartiere, Il braccio violento della legge racconta lo scontro serrato fra una coppia di detective della polizia, Jimmy Doyle detto Popeye (Gene Hackman) e Buddy Russo detto Cloudy (Roy Scheider), e un potentissimo narcotrafficante francese, Alain Charnier (Fernando Rey).
Passato alla storia anche in virtù di una famosissima scena di inseguimento di automobili, Il braccio violento della legge ottiene da subito uno strepitoso successo di pubblico (trenta milioni di spettatori negli USA) e trasforma in una star il quarantunenne Gene Hackman, scelto per motivi di budget al posto di divi più affermati e capace, con Jimmy Doyle, di dar vita a uno dei suoi ruoli simbolo. All'edizione degli Academy Award 1971, la pellicola viene ricompensata addirittura con cinque premi Oscar: miglior film, regia, attore, sceneggiatura e montaggio. Friedkin, vincitore del Golden Globe e dell'Oscar come miglior regista, avrebbe poi rivelato tuttavia di aver provato un intenso imbarazzo, ritenendo di non meritare la statuetta (a onor del vero, Il braccio violento della legge trionfò a scapito di due titoli anche più meritevoli, L'ultimo spettacolo di Peter Bogdanovich e Arancia meccanica di Stanley Kubrick).
2. Faccia a faccia con il Maligno: L'esorcista
Se Il braccio violento della legge impone William Friedkin fra i talenti in ascesa della New Hollywood, due anni dopo, nel Natale 1973, nelle sale americane approda il capolavoro del regista, nonché il suo film più conosciuto e uno dei maggiori campioni d'incassi nella storia della settima arte: L'esorcista. Tratto da un romanzo di William Peter Blatty, anche sceneggiatore e produttore della pellicola, L'esorcista segna un momento pivotale nell'evoluzione del cinema horror: sia per aver portato alla ribalta un nuovo filone, quello delle possessioni demoniache e dei "bambini satanici", sia per aver conferito una piena dignità artistica ad un genere troppo spesso relegato nell'ambito dei B-movie e dei titoli di puro intrattenimento. La vicenda di Regan (Linda Blair), figlia dodicenne dell'attrice Chris MacNeil (Ellen Burstyn), scuote e terrorizza il pubblico di tutto il mondo, rendendo L'esorcista un fenomeno di portata epocale, in grado di registrare incassi record - oltre cento milioni di spettatori negli Stati Uniti nella sua release originaria - e di affermarsi come l'evento mediatico dell'anno.
Accompagnato da un'infinità di dibattiti e dalle notizie sui diffusi malori fra gli spettatori in sala, L'esorcista riceve quattro Golden Globe, tra cui miglior film e regia, e diventa il primo horror ad aggiudicarsi la candidatura all'Oscar come miglior film dell'anno; la pellicola di Friedkin ottiene complessivamente dieci nomination agli Oscar, conquistando due statuette per la miglior sceneggiatura e il miglior sonoro. Ma il segreto alla radice dell'immensa popolarità de L'esorcista non risiede solo nell'abilità con cui il film riesce a gestire la suspense e a suscitare spavento, né tantomeno nell'elettrizzante performance di una prodigiosa Linda Blair (e di Mercedes McCambridge, alla quale è affidata la voce dello spirito maligno Pazuzu) e degli altri membri del cast, fra cui il veterano Max von Sydow. L'esorcista, infatti, è soprattutto un'opera che utilizza - e rivisita - i canoni dell'horror per esprimere inquietudini ben più sottili e profonde, trascinando noi spettatori negli abissi dell'inconscio e puntando lo sguardo verso gli anfratti più oscuri della psiche umana, sede di pensieri mostruosi ed inconfessabili.
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3. Nel cuore di tenebra: Il salario della paura
Dopo essere arrivato sulla cresta dell'onda grazie a due dei più importanti film del decennio (e non solo), con il suo progetto successivo, approdato nelle sale nell'estate del 1977, William Friedkin va invece incontro a uno dei più inaspettati e brucianti fiaschi di quegli anni: Il salario della paura, una pellicola prodotta dallo stesso Friedkin sulla base dell'omonimo romanzo di Georges Arnaud, dal quale nel 1953 il regista francese Henri-Georges Clouzot aveva già tratto l'acclamatissimo Vite vendute. Si tratta dell'avventura di quattro uomini di nazionalità diverse impegnati a trasportare due camion carichi di esplosivo per un percorso di duecento miglia nella giungla dell'America del Sud. "Ho creduto che la storia fosse senza tempo perché riguardava degli uomini che di base sono nemici, ma che devono collaborare insieme o saltare in aria", spiegherà Friedkin; "Mi è sembrato che questa fosse una metafora del mondo, e che lo sia tuttora".
Frutto di una lavorazione decisamente travagliata, fra problemi per il casting (l'unica star ingaggiata nel film è il fedele Roy Scheider), location in vari angoli del mondo, riprese di estrema difficoltà nella Repubblica Domenicana e ripetuti conflitti fra il regista e i membri della troupe, Il salario della paura si rivela un progetto logorante per tutte le persone coinvolte (lo stesso Friedkin contrarrà la malaria sul set), mentre il budget lievita oltre i venti milioni di dollari. La concorrenza diretta con Guerre stellari sancisce il tonfo commerciale del film, che si tramuta in un buco nero per le casse della Universal. Eppure, benché con notevole ritardo, Il salario della paura sarà riabilitato da critici e cinefili come uno dei migliori film di Friedkin: un thriller in grado di reggere il confronto con il capolavoro di Clouzot (al quale fra l'altro è dedicato), proponendo un'amarissima parabola sull'avidità umana. A proposito della pellicola, Friedkin dirà: "È l'unico tra i film che ho fatto di cui non cambierei neppure una sequenza".
4. Quell'oscuro oggetto del desiderio: Cruising
Se Il salario della paura costituiva una sfida di notevole rischio dal punto di vista produttivo, ancora più ambiziosa e azzardata - ma in senso ben diverso - è la scommessa tentata da William Friedkin nel 1980 con uno dei film più cupi ed angoscianti della sua carriera: Cruising, trasposizione di un romanzo firmato dal giornalista Gerald Walker. Al Pacino, in una delle sue interpretazioni più coraggiose, si cala nel ruolo di Steve Burns, un detective della polizia di New York sulle tracce di un serial killer che seleziona le proprie vittime nel sottobosco dei leather bar e dei locali di sadomaso del West Village. Accettando di prestarsi a potenziale 'esca' per l'assassino, Burns si finge omosessuale e si avventura in questo sconosciuto microcosmo notturno, ritrovandosi a stretto contatto con trasgressioni ed esperienze erotiche estreme che, in modo inaspettato, finiranno per coinvolgerlo direttamente.
Friedkin, per non incappare nel divieto ai minori, è costretto a tagliare quaranta minuti di girato (da allora introvabili) con i dettagli sessuali più espliciti, ma Cruising finisce comunque nel mirino delle proteste della comunità gay newyorkese. "È solo un giallo, con lo scenario dei leather bar come sfondo", si giustificherà Friedkin; "Ad un altro livello, è un film sull'identità: conosciamo davvero chi ci siede di fronte, o chi guardiamo allo specchio?". Ed è proprio tale aspetto di inesorabile ambiguità il principale elemento di tensione e di morbosa attrattiva di un film in cui il plot poliziesco non è che un puro pretesto: al di là del murder mystery, difatti, Cruising è un thriller capace di scuotere intimamente lo spettatore, assumendo una valenza quasi metaforica. L'indagine sotto copertura del detective di Al Pacino, in fondo, simboleggia l'ingresso nell'ignoto, in un mondo 'altro' in cui le pulsioni più segrete e represse trovano una loro paurosa materializzazione, in un imprevedibile connubio tra fascino e repulsione. E alcune sequenze del film, fra cui l'aggressione al Morningside Park ed il magistrale epilogo aperto, sprigionano ancora oggi una suspense affilatissima.
5. Strade violente: Vivere e morire a Los Angeles
Dopo il discreto successo di scandalo di Cruising e il flop della commedia L'affare del secolo (1983), nel 1985 William Friedkin dà prova di essere tutt'altro che un regista in declino firmando uno dei migliori - e fra i più emblematici - film polizieschi del decennio: Vivere e morire a Los Angeles, adattamento di un libro scritto da un ex agente dei Servizi Segreti, Gerald Pietevich. Un tagliente noir metropolitano che riporta Friedkin nei territori de Il braccio violento della legge, dal quale riprende l'elevatissimo grado di realismo, l'adrenalina delle scene d'azione e degli inseguimenti automobilistici, nonché il tema dello scontro fra il crimine e la legge: in questo caso fra una coppia di agenti dei Servizi Segreti, il rude Richard Chance (William Petersen) e il suo collega John Vukovich (John Pankow), e il sadico falsario Eric Masters (Willem Dafoe).
Esemplare per il suo utilizzo dello spazio urbano, Vivere e morire a Los Angeles è un action movie spiazzante e disperato, corredato da un twist finale che disattende le aspettative del pubblico. Michael Mann intenterà causa a Friedkin, accusandolo di plagio nei confronti della serie TV Miami Vice (ma perdendo in tribunale), mentre Vivere e morire a Los Angeles, forte anche di un buon responso al botteghino, si attesterà come uno degli esiti più convincenti nella filmografia del regista. Al punto che oggi, a trent'anni di distanza, la rete televisiva WGN America ha intenzione di mettere in cantiere una serie TV ispirata al film, con Friedkin in veste di produttore e forse anche alla regia di alcuni episodi; a ennesima dimostrazione dell'attualità e della modernità dell'opera di questo infaticabile ottantenne, ancora desideroso di stupirci...
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