Wild Men - Fuga dalla Civiltà, la recensione: farò di te un uomo

La recensione di Wild Men - Fuga dalla civiltà, seconda opera del regista danese Thomas Daneskov al cinema dal 20 ottobre.

Wild Men - Fuga dalla Civiltà, la recensione: farò di te un uomo

Sarebbe il caso di iniziare la recensione di Wild Men - Fuga dalla civiltà facendo una premessa importante: di lavori contemporanei sulla mascolinità tossica ne son piene le fosse (per usare un'immagine originale e ricercata). Alcuni sono piuttosto banalotti, altri invece veramente interessanti, soprattutto perché efficaci testimonianze di come il mezzo audiovisivo riesca a parlare del medesimo argomento pur provenendo da realtà culturalmente lontanissime. La seconda opera del regista danese Thomas Daneskov si piazza tra questi ultimi, ma con un'accezione in più, dato che riesce ad avvicinare due tra le suddette realtà. Pur non essendo un titolo di primo piano sulla tematica uscito in patria, come possono essere Un altro giro di Thomas Vinterberg o, in un certo senso, gli ultimi lavori di Ruben Östlund, Wild Men è di fatto un'ulteriore prova della vivacità del cinema scandinavo, in grado di tenere fede ad una tradizione ricca e aggiornata pur continuando a sperimentare, senza temere contaminazione alcuna, in questo caso nordamericana.

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Wild Men - Fuga dalla civiltà: Rasmus Bjerg in una scena del film

Nella pellicola ci sono infatti una grande quantità di elementi ascrivibili alla commedia degli equivoci, conditi da delle ammiccate molto convinti e insistenti al buddy movie e una più che consistente attenzione al gioco di contrasti tra ironia e dramma, che a volte sfugge al controllo, ma che quando è ben misurato regala un ottimo grottesco. In sottofondo l'eco del confine, della frontiera, che per gli scandinavi vuole dire rievocazione del rapporto con il selvaggio e della società vichinga, con cui c'è evidentemente ancora qualcosa di irrisolto. Non a caso, tra le mire di Daneskov non c'è solo la condanna del maschio alpha moderno, ma anche di coloro che si ostinano a guardarsi indietro, invece che misurarsi col presente.

"Le ho provate tutte..."

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Wild Men - Fuga dalla civiltà: Rasmus Bjerg in un'inquadratura

Martin (Rasmus Bjerg) è il più classico dei quarantenni ben oltre l'orlo di una crisi di nervi, non a caso la prima cosa che sentiamo del film è il suo pianto. E, sinceramente, ne ha ben donde, perché non solo si è ridotto a vagare senza meta per un bosco sterminato, ma è anche nelle condizioni mentali di andare in giro come Leonardo DiCaprio in The Revenant senza avere un minimo delle abilità di sopravvivenza del personaggio del film di Iñárritu. Non ci vuole certo un genio per capire che le ranocchie è meglio non mangiarle o che è ovvio che al supermarket non accettano come pagamento uno scambio con un arco.

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Wild Men - Fuga dalla civiltà: Rasmus Bjerg in un momento del film

Nonostante le evidenti difficoltà di adattamento, bisogna riconoscere però a Martin la determinazione (quasi disperata) che esprime nell'iniziare la sua nuova vita da cacciatore autosufficiente, lontana dalla società, dalla tecnologia (non tutta) e dai comfort (più o meno). Una nuova vita che viene presto scossa dall'arrivo di Musa (Zaki Youssef), un criminale ferito ad una gamba e in fuga dalla polizia, ma soprattutto un uomo con un segreto, che è esattamente quello che ci vuole per un altro uomo con un segreto. O no? Anche perché ai veri machi piace avere qualcosa in comune, così possono non parlarne, che sia una borsa piena di soldi o una moglie e due splendide bambine. Per qualche motivo il loro scopo comune diventa raggiungere un leggendario villaggio vichingo, una sorta di pseudo terra promessa. Si devono però sbrigare perché alle loro calcagna non ci sono solamente i piedi piatti, ma qualcosa di molto peggio, i veri machi.

Varcare il confine

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Wild Men - Fuga dalla civiltà: una scena del film

Il film di Daneskov è in un certo senso la descrizione procedurale dell'azione del "valicare", declinata nelle sue forme sia pratiche che metaforiche. I due protagonisti sono posti all'interno di un doppio percorso di formazione (anche se c'è ne è un terzo in sottofondo in realtà) attraverso il quale sono chiamati a compiere un'evoluzione di pensiero, in questo caso legato ad una ricollocazione del concetto di machismo, che deve essere soppiantato da una maturità maschile figlia dell'accettazione della propria responsabilità in quanto parte di una società e, soprattutto, di una famiglia. Questo passaggio è ben rappresentato dalle location in cui si svolge la storia, ovvero una foresta selvaggia e sterminata al confine tra Norvegia e Danimarca (nell'ultima parte c'è addirittura la rappresentazione di una galleria con tanto di cancello elettrico, che porta da un Paese all'altro), teatro di un continuo confronto tra natura e uomo, moderno.

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Wild Men - Fuga dalla civiltà: una scena del film

Questa realtà così tumultuosa che si crea intorno al percorso dei protagonisti, da rifugio dal mondo diventa piano piano il luogo ideale per mettere definitivamente in crisi il maschile, spingendo la sua condizione alle estreme conseguenze, che sono spesso quelle richieste dalle menti ottuse (o, peggio ancora, ostinate) per arrivare a farsi finalmente qualche domanda.
I problemi di Wild Men nascono soprattutto quando si parla del suo ritmo, che fatica ad inglobare nel registro la scelta di vivere in un via vai continuo tra commedia e dramma con il solo scopo di ricercare il grottesco. Questo penalizza molto la risposta alla sua riflessione sul maschilismo tossico, che si traduce nella semplice necessità di tornare sui propri passi, ma non quelli che intendono i machi.

Conclusioni

Come scritto nella nostra recensione di Wild Men - Fuga dalla civiltà, per la sua seconda opera il regista danese Thomas Daneskov parte dal classico racconto di formazione costruito guardando alla struttura del buddy movie per affidare l'originalità ad un registro che prenda il meglio dall'immaginario scandinavo e dal linguaggio da commedia degli equivoci statunitense, cercando di giocare con il grottesco ad ogni occasione. Ne esce un trattato filosofico ambientato in una dimensione uomo contro natura, che riflette sulla mascolinità tossica ponendo i suoi protagonisti in un percorso mentale che li dovrebbe portare a varcare il metaforico confine verso una nuova consapevolezza di se stessi. Per poi tornare sui propri passi illuminati, ma non fino all'età dei vichinghi.

Movieplayer.it
2.5/5
Voto medio
3.0/5

Perché ci piace

  • Quando il gioco di contrasti tra commedia e dramma è ben calibrato il grottesco che si raggiunge è delizioso.
  • La regia e la fotografia sono ottime, soprattutto nelle scene ad ampio respiro ambientate nella natura.
  • La prova attoriale di Rasmus Bjerg.
  • La metafora del varcare il confine come accedere ad una nuova consapevolezza.

Cosa non va

  • Il ritmo a lungo andare accusa questo continuo contrasto nel registro scelto.
  • A volte il grottesco diventa, semplicemente, non credibile.
  • La risoluzione è piuttosto banale.