We Will Never Belong, diretto dalla regista messicana Amelia Eloisa, è un film molto bello. Sì, lo sappiamo: è un pensiero elementare, e sì è un pensiero probabilmente scontato. Eppure, il giudizio di una recensione dovrebbe rispecchiare il film stesso, provando a descriverlo con le parole (scritte) senza perdersi in voli pindarici, spesso fini a se stessi. Ecco, We Will Never Belong, è un film tanto bello quanto semplice, e ricalca in pieno tutto l'ardore e gli splendidi difetti di un'opera prima che ci tiene a far sentire la propria voce, con fermissima dolcezza. Ci tiene, perché la regista queer nata a Guadalajara vuole incondizionatamente bene ai suoi personaggi, e alla storia che mette in scena. Un film a cui vuole bene, e a cui vogliamo bene.
Perché, quando parliamo di romanzi di formazione, l'empatia non può essere un concetto sfuggente. Anzi. Ciò che mette in scena Amelia Eloisa è infatti un percorso, di quelli intrapresi mettendo al centro della storia il bisogno di raccontare, e utilizzando lo stesso racconto come terapia artistica in cui poter liberare ogni (proprio) barlume di oscurità. Del resto, We Will Never Belong - presentato al Giffoni Film Festival 2023, dopo il passaggio all'Inside Out Toronto 2SLGBTQ+ Film Festival - è un film di continui contrapposti e di continui ossimori. Contraddizioni che si mischiano nell'estetica e nella scrittura, che segue la classica naturalezza informale dei migliori esordi indipendenti.
Alla scoperta di sé
Insomma, We Will Never Belong (titolo originale Nunca seremos parte) è un film che ci ha particolarmente colpito. Sarà la leggerezza tonale, che si sposa con le immagini al neon di una fotografia marcatamente contemporanea, sarà l'umanità scapigliata della protagonista, che scopre sé stessa ad ogni cambio di scena. Emi (Adriana Palafox), come ogni adolescente, vive in modo estremo la sua età, emblema di dubbi e inquietudini. Dubbi acuiti dalla relazione di sua madre con una donna.
La ragazza, profondamente risentita, torna a vivere con la nuova famiglia di suo padre, trovando conforto nella nonna. Ma se We Will Never Belong cambia repentinamente, ecco che Emi incontra Gala (Magnolia Corona), la figliastra di suo padre, che ha più o meno la sua età. Gala è molto diversa da Emi. Più aperta, più libera, più leggera. Emi resta affascinata, la tensione corre fin sulla schiena. Si pone della domande. Mette in discussione la propria sessualità. Un incontro che cambierà le sue prospettive, aiutandola (forse) a risanare il rapporto con la madre.
Un coming-of-age in perpetua trasformazione
Lo abbiamo detto all'inizio, We Will Never Belong è un film di liberazione, di consapevolezza, di accettazione. Per stessa ammissione della regista, la storia di Emi l'ha aiutata ad accettare (e a comprendere) il suo orientamento sessuale, rimarcando un concetto cardine: love is love. Se l'amore è amore, l'opera prima di Amelia Eloisa - che è anche un atto d'amore nei confronti di Guadalajara, dov'è nata, nonostante non sia una città semplicissima - compie un viaggio lineare, che si sofferma sui volti e sui gesti, sfruttando in modo suggestivo i toni di una fotografia (firmata da Diego Cabellero de Alba) evidentemente riconoscibile nelle sue sfumature al neon. Uno stile forse inflazionato, ma splendidamente efficiente nell'economia di una geografia urbana.
La città, come la stessa sessualità, verrà scoperta da Emi un poco alla volta, rendendo We Will Never Belong un coming-of-age in perpetua trasformazione, e in continuo mutamento (anche cinematografico: basta pensare alla camera fissa, che passa alla camera a mano), nonostante non manchino i giri a vuoto che indugiano su una sorniona pigrizia narrativa (affievolita da una durata istantanea, poco meno di novanta minuti). Tuttavia, Saranno proprio i colori a traslare il pensiero filmico della regista (da tenere d'occhio!), squarciando l'oscurità di un dubbio dall'ombra lunga, per illuminare finalmente l'amore empirico e totale.
Conclusioni
Come scritto nella recensione di We Will Never Belong, l'esordio della messicana Amelia Eloisa è un coming-of-age queer che funziona, sia dal punto di vista estetico che narrativo. I colori fluo sono efficaci, il percorso della protagonista è coinvolgente, così come è interessante il panorama urbano, che fa da sfondo alla vicenda.
Perché ci piace
- Un'ottima costruzione visiva.
- I colori.
- I tratti urbani della storia.
- L'amore come scopo e come consapevolezza.
Cosa non va
- La narrazione, nella parte centrale, tende a bloccarsi, privilegiando l'estetica.