Alla base c'è un videoclip girato con uno smartphone, c'è la passione dell'esordio, la professionalità di chi il cinema lo mastica eccome, ma ci sono soprattutto quarantacinque mesi di duro lavoro di cui quindici per racimolare i soldi, sei di preparazione, tre di riprese, altri sei per il montaggio e venti per trovare una distribuzione e far conoscere il film. Poi un anno e mezzo di peregrinare tra diversi festival internazionali: dagli Stati Uniti a Hong Kong passando per Londra.
È la genesi di WAX: We Are the X, un film che è il riscatto di una generazione di sacrificabili e dimenticati: quegli over 30 troppo spesso relegati nel nostro paese a zone d'ombra. WAX gli dà voce e spazio e non è un caso che il regista, Lorenzo Corvino, al debutto dietro la macchina da presa, ci tenga a sottolineare: "Si tratta di 12 esordi, il mio e quello di altri professionisti under 40, dal produttore al direttore della fotografia, allo scenografo, al musicista".
L'hanno definito un'opera destinata a diventare un 'manifesto generazionale', lo hanno etichettato come road movie, ma "Wax" è molto di più: è vendetta, caparbietà, mockumentary, thriller, mix di registri e linguaggi, è la capacità di provarci sempre e comunque, fino ad arrivare a dirigere Rutger Hauer. Un racconto girato in soggettiva spesso con l'aiuto di uno smartphone, che fa da apripista a un connubio, per una volta felice, tra cinema e tecnologia almeno entro i confini del panorama cinematografico italiano.
La fuga all'estero
Un cammino festivaliero che a parte la tappa al Festival del Cinema Europeo di Lecce vi ha portato fuori dall'Italia. Quali sono state le difficoltà maggiori?
Lorenzo Corvino: Non vorrei sembrare qualunquista, ma il problema dell'Italia è l'indifferenza. A volte non ho ricevuto risposte di alcun tipo, neanche per capire il motivo del rifiuto: ad esempio nel caso di alcuni bandi in cui hai diritto a un feedback per poter fare i cambiamenti necessari a riprovarci una seconda volta. Probabilmente all'inizio ho peccato di presunzione pensando che il film si sarebbe fatto strada da solo; con il tempo ho capito che un film è come il cucciolo di un essere umano: non basta averlo messo al mondo, lo devi aiutare a crescere e farlo conoscere. In questo caso la crescita è stata proprio fare un'azione capillare, prendere uno a uno opinion leader, giornalisti, addetti ai lavori e fargli vedere il film fino ad arrivare alla distribuzione. Il nostro problema principale era proprio non riuscire a mostrarlo ai distributori.
Cosa c'è di diverso all'estero?
Sicuramente un modo differente di rifiutare o di accoglierti; innanzitutto ci ricevevano e avevano un interesse a parlare con noi anche nel caso di un no. Era tutto più facilmente dialogabile. Abbiamo inoltre trovato una società di vendite estere, la Film Export Group, che ha preso in consegna il film e si occuperà delle vendite internazionali.
Il self(ie)-movie
Come sei riuscito a realizzare una mistura così equilibrata di linguaggi e registri? Un road movie che diventa mockumentary che si veste da thriller per raccontare una crisi generazionale... È un po' insolito.
Il segreto di questa possibilità consiste nello stare sempre in compagnia degli stessi personaggi, sono loro che danno continuità e che permettono agli spettatori di avere un punto di riferimento anche mentre cambiano i registri. Un'altra storia fatta magari di montaggio parallelo e un classico io demiurgico, che si sarebbe arrogato il diritto di raccontare indicando una direzione piuttosto che un'altra, avrebbe rivelato una presenza disturbante di linguaggi differenti. In questo caso invece proprio il viaggiare insieme e al fianco dei tre protagonisti della storia in un gioco di tesi, antitesi e sintesi, mi ha permesso di cambiare registro senza infastidire il pubblico, che così rimane focalizzato sui personaggi.
L'uso dello smartphone in alcune soggettive apre la strada ad un nuovo modo di fare cinema di genere in Italia: ti senti un po' pioniere in questo senso? E come credi che il rapporto tra tecnologia e cinema possa continuare ed evolversi?
Quello che ho scoperto durante i miei dieci anni di gavetta sui set come assistente macchinista è che siamo tutti pionieri di noi stessi. L'ambiente del cinema, a differenza di altri ambiti lavorativi, non è istituzionalizzato, non ha delle regole, e questo ti insegna a essere sempre il creatore di un cammino, il pioniere di qualcosa e nello stesso tempo colui che con ogni probabilità ne decreterà anche il decadentismo. Così smetti di avere dei modelli di riferimento: preferisco lasciare agli storici e ai critici il compito di individuare delle linee di continuità di un'epoca per individuare delle scuole. Ma nell' hic et nunc non puoi permetterti di dire: "Mi ispiro a Lynch, voglio essere tarantiniano o voglio fare una cosa alla Burton", così rischi solo di emulare il cammino pionieristico di qualcun altro e farne una copia.
La tecnologia è il pretesto per capire cosa mi permette nella mia linea espressiva di sentirmi a mio agio; nel mio caso, è stato il cellulare. Nei vari sopralluoghi che facevo, quando mi trovavo a vampirizzare e voracizzare i set dove mi trovavo per imparare, filmavo tutto con un cellulare e mi portavo sempre dietro una penna con cui scrivevo su un taccuino: cellulare e taccuino proprio come quelli di Livio e Dario nel film. Ho applicato il mio modo di essere pioniere di me stesso nelle esperienze che facevo per poi usarle come mezzo espressivo. Sono partito da un unico intento, quello di raccontare una storia, ma non ho mai penato: "Uso lo smartphone per creare un linguaggio nuovo". Mi sono semplicemente chiesto quale fosse il mezzo migliore per raccontare una storia.
E se dovessi indicare dei tuoi personali riferimenti?
Se dovessi citarne uno, sarebbe senz'altro Danny Boyle, per la capacità che ha di usare lo strumento più idoneo alla storia che sta raccontando. Il segreto che ho imparato in questi 45 mesi di lavorazione è stato pensare una storia, pensarla su carta, provare a immaginarla tradotta in un'altra lingua e con una narrazione in grado di essere capita dall'inizio alla fine. Solo dopo, quando decidi di metterla in piedi, cercherai di capire il modo migliore per raccontarla e solo allora tutti gli elementi della tecnologia diventeranno degli accessori e non lo strumento principale di cui dotarsi. Bisogna rimanere fedeli alla storia e far diventare la tecnologia accessoria.
La generazione X
Perché un film generazionale?
Volevo liberarmi e liberarci dell'eredità manzoniana di questo paese. Abbiamo sempre parlato per metafore e vie traverse, Alessandro Manzoni ha scritto il romanzo più bello che potesse essere realizzato, ma per parlare del presente doveva raccontare un passato di duecento anni prima; oggi però possiamo dire basta a questa visione traslata, al fatto di non riuscire mai a raccontarci apertamente perché abbiamo sempre un po' paura e ci autocensuriamo. Perché nasconderci? Troviamo il coraggio di parlare del nostro presente e di noi stessi, come negli anni '60 faceva Rosi con Le mani sulla città. Cerchiamo di mostrarci per quello che siamo e di vivere il presente insieme agli spettatori. Ho voluto raccontare una storia universale che potesse essere capita ovunque
Qual è la via del riscatto?
La soluzione non è certo lasciare al problema la possibilità di dare la definizione di cosa siamo, ma è invece guardarsi attorno e cercare collaborazione. Il segreto è stato coinvolgere nel corso degli anni quante più persone possibili fino a dire: "Aiutami e aiutiamoci a fare questo lavoro insieme. Quando avrò l'opportunità di fare il mio primo film tu sarai il direttore della fotografia". E così è stato con lui, con il fonico, l'attore protagonista Jacopo Maria Bicocchi e la casting director. Il segreto è coinvolgere e fare gruppo, ognuno con le proprie specificità per essere competitivi, ma senza l'ossessione della competizione. La crisi sta diventando una scusa per impedirci di fermarci un attimo, riflettere e fare la cosa migliore per ognuno. Ci stanno costringendo a essere così accelerati da non renderci conto che spesso corriamo da soli.
L'incontro con Rutger Hauer
Tra le tante sfide c'era anche quella di dirigere Rutger Hauer: come è andata?
La parte non era stata scritta da subito per lui, anche se fin dall'inizio avevo pensato ad una guest star internazionale; perché mettere battute come quelle ("Anche se non ci sono degli assassini, non vuol dire che non ci siano dei colpevoli") in bocca a un attore privo di quell'auctoritas e di quella caratura probabilmente non avrebbe avuto lo stesso effetto, essendo un esordiente avrei rischiato che mi ridessero dietro. Rutger Hauer ci consegna la chiave d'entrata di tutto il film, dà le istruzioni allo spettatore.
Cosa ti ha lasciato?
La disponibilità a dialogare con me che ero un esordiente: era capace di guardarti negli occhi e ascoltarti. Non si è mai imposto, un anno dopo è tornato in Italia per i suoi settant'anni e ha festeggiato con la nostra troupe; in quell'occasione Dagospia scrisse "Rutger Hauer su un set segretissimo in Italia", in realtà stavamo in una villetta a mangiare una pizza!