Il cinema è roba da duri e Walter Hill ne è la prova. Giunto alla rosea età di settant'anni, e dopo una serie di incursioni recenti nella fantascienza, Hill torna a far visita al genere che gli è più congeniale confezionando un action thriller ruvido ed estremo che non fa sconti ai deboli di cuore e di stomaco. A questo punto della sua carriera il regista de I guerrieri della notte e Strade di fuoco non ha più niente da perdere e si permette qualche licenza forzando la mano alla coerenza narrativa e sfruttando al massimo il corpo muscoloso e tatuato della star Sylvester Stallone, l'ultimo di una serie di cowboy solitari dalla morale dubbia che popolano il suo cinema. Tra tatuaggi, sangue, sudore, pallottole e battute al fulmicotone, la presentazione romana di Bullet to The Head, con annessa la consegna del Maverick Director Award, ci fornisce l'occasione di fare quattro chiacchiere con il celebre cineasta approfondendo gli aspetti fondanti della sua poetica della violenza.
Walter, la tua opera è profondamente debittrice del cinema degli anni '70.
Walter Hill: Quella è l'epoca in cui ho iniziato a lavorare. Imparare a fare cinema non è difficile, neppure padroneggiare gli strumenti, ma saperlo fare bene è un altro paio di maniche. Non ci sono segreti, la tecnica permette al regista di far emergere la sua personalità. Io non credo molto al concetto di cinema come arte, ma penso che ognuno di noi faccia il meglio possibile con gli strumenti che ha a disposizione.
Oggi Hollywood è molto diversa da quando ho iniziato a lavorare. Non voglio sembrare il solito vecchio noioso, ma devo dire che ai miei tempi era meglio. C'era sempre una tirannia del denaro, ma ci si divertiva di più. Il business contava molto, ma lo spettacolo non era secondario. Il cinema è una forma di artigianato. Prima se ci si sbilanciava troppo in direzione dell'arte non si facevano soldi, ma oggi è diventato tutto troppo industriale e stereotipato.
Hai lavorato con autori come Huston e Peckimpah. Un tempo il western era uno dei generi principe, il più importante nella rappresentazione dei cambiamenti dei valori americani. Cosa si è perso oggi?
E' difficile dirlo. Io non sono un sociologo, ma penso che chi fa western sente che si è perso qualcosa, un valore che identificava al meglio il genere come portatore di verità, specchio degli Stati Uniti. Oggi quest'iconografia e quest'immaginario sono spariti. Questo è successo in tutti i generi tradizionali, solo che il western, rispetto agli altri, è più passibile di parodia. Ma io, se trovo una bella storia, non ho paura a girare un altro western.
Una delle componenti più innovative del tuo cinema è il montaggio. Quanto contano il ritmo e la musica nei tuoi lavori?
E' difficile interpretare il proprio lavoro, ma io credo molto nella brevità e nel ritmo. Non amo i film troppo lunghi né quelli sopra le righe. Amo costruire i film con la musica per raggiungere un certo tipo di armonia. Non uso mai lo storyboard perché lo trovo inutile e poi quando arrivi sul set è tutto diverso da come te lo eri immaginato. E' un gran casino, ma divertente.
Spesso ho usato scene di apparente calma per creare movimento, per variare rispetto all'action pura. Inoltre alla base del mio pensiero c'è una malinconia di fondo. Nel mio profondo sono pessimista e credo che l'eco del mio stato d'animo si rifletta nei miei film. Detto ciò il cinema è un mezzo visivo e quindi io traduco tutto in immagini. Non tutti i miei film possono essere composti al 100% da sparatorie o scazzottate.
Wenders diceva che il cinema classico americano è fatto apposta per dimostrare come gli uomini stiano bene tra loro anche quando non sono gay. Però talvolta hai fatto uso di personaggi action femminili.
La gente di solito non guarda a me per imparare qualcosa sui personaggi femminili, ma questo non è del tutto corretto perché le donne nei miei film hanno una loro potenza. Ammetto di tendere a fare film su persone che si trovano in situazioni difficili e le donne danno veridicità al tutto.
E' vero che non riguardi mai i tuoi film?
E' vero. Io credo che l'individuo debba sempre guardare avanti. Non mi piace pensare al passato.
Da buon artigiano del cinema in che rapporto sei con l'altro grande artigiano John Milius?
Ci siamo conosciuti molti anni fa perché eravamo vicini di ufficio. Lui aveva appena firmato la sceneggiatura di Apocalypse Now e abbiamo collaborato insieme. Penso sia un grande sceneggiatore, ma non era facile lavorare con lui perché non amava che si facessero modifiche sui suoi script. Io sono minimalista, mentre lui ha sempre guardato in grande, aveva e ha una visione ampia, parla a voce alta, è un gigante, ma devo dire che ha sempre avuto un grandissimo senso dell'umorismo. La sua personalità, a Hollywood, ha avuto un peso molto maggiore rispetto ai suoi film perché non è mai riuscito a girare l'opera che avrebbe voluto.
Anche lui ha una fortissima personalità. Prima di lavorare con lui molti mi avevano messo in guardia, ma non ho mai avuto problemi. Ha delle idee ben precise, ma mi ha sempre datto retta, si è lasciato dirigere e non abbiamo avuto discussioni. Devo dire, però, che mentre molti attori nel privato si nascondono lui ama moltissimo essere una star e non ne fa mistero.
Il tuo prossimo lavoro sarà un western?
No, sto per dirigere il remake di Che fine ha fatto Baby Jane? così non diranno più che non faccio film sulle donne. I miei film parlano di scontri violenti e anche stavolta non resterete delusi.