Vuota provincia italiana
Se l'obiettivo di Fausto Paravidino, ventinovenne drammaturgo al suo esordio dietro la macchina da presa, era quello di mostrare il nulla di una periferia qualsiasi del Nord Italia e delle vite di chi ci abita, bisogna ammettere che il risultato è perfettamente rispondente alle intenzioni, perché Texas è effettivamente un film fatto di nulla. Dopo il passaggio all'ultima Mostra di Venezia, sezione Orizzonti, qualcuno ha avuto l'ardire di conferirgli un premio (il Pasinetti, assegnato dal Sindacato nazionale giornalisti cinematografici) gridando alla rinascita del cinema italiano, ma la verità è che ci ritroviamo di fronte all'ennesimo brutto film di casa nostra. Raccomandato da Luciano Ligabue, la nuova, infelice scommessa di Domenico Procacci, produttore coraggioso e brillante, ma vittima, ultimamente, di clamorosi abbagli, tra i quali ricordiamo il flop de L'orizzonte degli eventi di Daniele Vicari, si chiama Fausto Paravidino, apprezzato autore teatrale che si cimenta per la prima volta col cinema, nella triplice veste di regista, sceneggiatore ed attore, senza riuscire, però, a ricoprire dignitosamente nessuno dei tre ruoli.
Texas è un film in quattro atti, che racconta la quotidianità di un gruppo di giovani insoddisfatti della profonda provincia del Nord, quel basso Piemonte che si configura come un non luogo dove diverse generazioni si confrontano, ma restano incapaci di riconoscersi. Tre notti di tre diversi mesi, tre sabati trascorsi tra amici, a far baldoria, ad ubriacarsi e a sognare una vita migliore, senza alcun progetto concreto, paralizzati dal freddo di un posto senza libertà, che in questo caso fa rima con ricchezza e si trova lontano, a New York. Una girandola di personaggi immobili, sconfitti o destinati al fallimento, che aprono la bocca solo per riempire il silenzio, per non doverci fare i conti, che si amano svogliatamente e si tradiscono con indifferenza, che vivono il vuoto delle loro vite come eredità ingombrante del territorio che abitano. Sarà uno scandalo da paese, generato dalla scoperta della relazione clandestina tra il belloccio della compagnia (Riccardo Scamarcio) e una maestrina sposata (Valeria Golino), ad accendere gli animi e, tra scazzottate e pistole disseppellite, si giungerà al dramma finale, che col resto non c'entra niente, ma è l'esplosione di un'insofferenza e un'insoddisfazione covate dentro per trent'anni.
Paravidino costruisce un film estramemente confuso nella parte iniziale, soprattutto sotto il profilo registico, quando per presentare i numerosi personaggi si diverte a mettere in scena una lunga e noiosa carrellata di quadretti familiari, manipolando soggetti e oggetti senza alcun pudore formale. Fa parlare i personaggi in macchina e si lancia in mortificanti split screen a bolle. Sono così tanti i nomi, i fatti e le relazioni di cui si narra, caoticamente, nella prima parte che lo spettatore non può che restarne disorientato, anche se i toni della commedia alleggeriscono il peso del bombardamento di informazioni. Non deve avere un'ottima opinione del pubblico il giovane regista genovese però, se crede che per far ridere basti dotare tutti i personaggi di un nomignolo strambo, risolvendo di conseguenza la loro caratterizzazione in un'azione o una stupida frase reiterate ad nauseam, o far parlare uno di questi unicamente ruttando, forse per distogliere l'attenzione da quello che è il naturale timbro di voce del narratore, (lo stesso Paravidino che è anche tra i protagonisti della storia). Il cambio di registro, dalla commedia al dramma, conferisce al film una buona tensione drammatica che va in crescendo fino al culmine finale, ma è impossibile appassionarsi a quello che accade perché costruito sul niente, su dialoghi insulsi, conflitti risibili e scandali preistorici.