È questo che mi piace della musica pop: non voglio che la gente debba pensare troppo. Voglio solo che stia bene.
"So teach me, show me all you've got/ And in your words I will be wrapped up/ Speak to me, you're my last hope/ And I will say nothing and listen to your love". Sono parole di amore e di speranza quelle pronunciate dalla tredicenne Celeste Montgomery nel ritornello della canzone che diventerà l'elegia in cui sublimare un immenso dolore collettivo. È il tema alla radice di Vox Lux: la musica come veicolo di aggregazione per una società sempre più frammentata e impaurita, e pertanto in cerca di nuove icone attorno a cui raccogliersi nei momenti di smarrimento.
E Celeste, sopravvissuta alla morte per miracolo, con il suo candore adolescenziale e la sua voce cristallina è l'icona perfetta per l'America all'alba del terzo millennio. Vox Lux in fondo è questo, come riportato pure nei titoli di coda: "A Twenty-First Century Portrait". Come dichiarazione d'intenti potrebbe sembrare quantomeno ambiziosa, eppure a Brady Corbet, non ancora trentenne quando ha scritto e diretto la sua opera seconda, non è certo l'ambizione a mancare. E l'anno scorso, al Festival di Venezia (si veda la nostra recensione di Vox Lux), lo ha dimostrato presentando un film coraggioso e spiazzante, decisamente unico nel suo genere; un film che non si adagia su formule prestabilite, ma al contrario evidenzia l'originalità di uno dei giovani autori più interessanti dell'odierno cinema americano.
L'America e la fine dell'innocenza
Nel suo lungometraggio d'esordio, L'infanzia di un capo, premiato nella sezione Orizzonti al Festival di Venezia 2015, Brady Corbet si ispirava a una novella di Jean-Paul Sartre - e a Il nastro bianco di Michael Haneke - per dipingere un cupo ritratto delle origini dei totalitarismi europei, mescolando suggestioni psicologiche (di matrice familiare e sessuale) e affresco storico. Un'impresa non semplice per un autore al debutto, ma condotta da Corbet con un rigore e una lucidità d'intenti ammirevoli, senza il timore che il film potesse risultare cupo o disturbante. Dall'Europa agli inizi del "secolo breve", con Vox Lux passiamo invece all'America a cavallo fra i due millenni: il preludio, ambientato nel 1999, racconta una tragedia che esplode all'improvviso a New Brighton, un'area residenziale di Staten Island, e in cui rimane coinvolta anche Celeste, interpretata da Raffey Cassidy.
È la duplice dimensione su cui si sviluppa tutta la pellicola: la dimensione privata, relativa alla parabola di Celeste verso la notorietà in seguito all'evento che per poco non le è costato la vita, e la dimensione pubblica, contraddistinta dall'inquietudine per le stragi scolastiche e il terrorismo. Vox Lux, scandito in due atti distinti ("genesi" e "rigenesi"), intreccia costantemente questi due piani: l'esistenza e la carriera di Celeste, che da adulta ha il volto di Natalie Portman, sono legate a doppio filo ad una realtà scandita da repentine e inspiegabili manifestazioni di violenza. Perché sul film di Corbet si profilano le ombre di Columbine e dell'11 settembre, avvenimenti pivotali di un'ennesima "perdita dell'innocenza" per la nazione americana.
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È nata una stella: genesi, morte e resurrezione di una popstar
Questa perdita dell'innocenza si riflette sul percorso esperienziale di Celeste, che nel 2000 viene messa sotto contratto da un'etichetta discografica e subito dopo, sotto la supervisione della sorella maggiore Eleanor (Stacy Martin) e di un risoluto manager impersonato da Jude Law, comincia a viaggiare fra Stoccolma e Los Angeles per incidere il suo primo disco, girare un video che accompagni il singolo di lancio e cominciare la "costruzione del mito"; e le canzoni di Celeste, composte dall'australiana Sia, esprimono le varie fasi di questo processo. La sua prima hit, Hologram (Smoke and Mirrors), non potrebbe essere più emblematica: l'originaria spontaneità della ragazza viene fagocitata da un tappeto synth elettronico, il suo viso nascosto dietro una maschera di make up oro e argento.
Assorbita dall'industria che punta a farne una star, Celeste è esattamente quanto indicato nel titolo della canzone: un ologramma, l'immagine virtuale - e dunque priva di spessore e consistenza - in cui si riflettono i desideri e la volontà di evasione di un paese bisognoso di distrarsi dagli orrori del presente. Ma quegli orrori torneranno prepotentemente ad emergere, e per richiamare la massima attenzione possibile faranno uso dei medesimi strumenti che hanno consacrato il successo di Celeste: la sfavillante maschera di Hologram e il potere della diffusione virale, con la morte illustrata in diretta con l'agilità di una ripresa digitale. La cesura che separa i due atti del film è un atto terroristico privo di qualunque ideologia: dietro il massacro su una spiaggia della Croazia c'è lo stesso 'vuoto' su sui si regge la musica di Celeste.
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'Io sono la nuova fede'
È la terribile analogia suggerita da Vox Lux (il titolo altisonante corrisponde a quello del nuovo album della protagonista), e rimarcata a chiare lettere da Celeste nella conferenza stampa che anticipa il suo atteso ritorno sulle scene: nel 2017, la violenza e il terrorismo hanno assunto il linguaggio della cultura pop, arrivando addirittura a vampirizzarne le icone. E Celeste sembra del tutto consapevole del proprio ruolo: "Se vogliono qualcosa di nuovo in cui credere, possono credere in me: perché io sono la nuova fede, e non ho paura di loro". Nel frattempo, l'adolescente angosciata dall'incubo di un tunnel senza fine si è trasformata in una popstar dal precario equilibrio psichico, impegnata a sottrarsi alla spirale autodistruttiva che non solo ha rischiato di comprometterne la carriera, ma che sta riducendo in frantumi il suo rapporto con la sorella Eleanor e con la figlia Albertine (sempre interpretata dalla Cassidy), oltre alla propria salute mentale.
E Natalie Portman, in una delle sue migliori prove d'attrice, si cala nei panni di questa diva capricciosa e irascibile con mimetica aderenza, in una performance che ricalca la natura inconsapevolmente 'teatrale' delle frasi, degli sguardi, dei gesti, perfino del modo di camminare di Celeste, in un'inesorabile scollatura da quanto di autentico c'è (c'era?) dentro di lei. Perché Celeste, oggetto dell'interesse - spesso invadente o morboso - della stampa e dei fan, è innanzitutto questo: un'icona glam postmoderna, che si esibisce in playback ammantata da un'aura messianica che manda in visibilio le folle adoranti. È la declinazione contemporanea del patto con il diavolo: "Lui le sussurrò delle melodie e lei tornò indietro con una missione: portare un grande cambiamento nel prossimo secolo". One for the money, two for the show...