Volevo essere Alain Delon
In un'epoca in cui i piccoli cinema scompaiono uno dopo l'altro, fagocitati dai multisala periferici che si accaparrano un pubblico interessato a una fruizione 'fast food' del prodotto cinematografico, c'è ancora qualcuno che canta l'elegia del tempo che fu o di quello che potrebbe ancora essere con un'oculata politica culturale. Il bel documentario L'elefante occupa spazio, scritto e diretto da Francesco Barnabei e presentato alla V Festival Internazionale del Film di Roma nella Sezione L'altro cinema/Extra, sceglie di narrare le esistenze di tre impiegati - due proiezionisti e un direttore di sala - che lavorano in tre sale cinematografiche storiche di Roma (Delle Mimose, Greenwich, Nuovo Sacher) e il loro mondo fatto di passione, di cinefilia, di sacrificio, di alienazione, ma anche di celluloide e poetica nostalgia. L'universo dei piccoli cinema è quello in cui lo spettatore anziano ancora si affaccia alla porta timoroso in cerca di un consiglio sul film da vedere, dove il proiezionista è il più cinefilo tra gli spettatori, dove le persone ancora si salutano e si scambiano le impressioni sul film alla fine dello spettacolo. Un universo che rischia di scomparire, ma che Barnabei, per fortuna, ha deciso di immortalare nel suo film agile e fantasioso che ha alle spalle una lunga gestazione e che è stato prodotto con il sostegno della Roma Lazio Film Commission.
Le vite e i racconti di Ermanno Nastri, Elio Grieco e Fernando Romanelli si snodano sullo schermo come nella più avventurosa delle pellicole. La narrazione muta intelligentemente registro e linguaggi, attingendo al mondo del teatro (le prove dello spettacolo di Ermanno, membro di una compagnia teatrale amatoriale), del disegno, passione di Elio che si diverte a ritrarre tutte le sue clienti e a legger loro l'ombelico, e delle pazze invenzioni che Fernando, ormai in pensione, cerca di brevettare. Un'opera come L'elefante occupa spazio deve molto alle splendide facce del tre protagonisti che ne rappresentano l'anima, alla loro verve e alla loro follia, anche se nel documentario non manca la dimensione corale rappresentata da un microcosmo fatto di cassiere, registi (Nanni Moretti in primis), spettatori e semplici passanti. Ironico e surreale, il film evita di delegare la narrazione unicamente alla verve dei suoi protagonisti e a tratti l'affabulazione lascia spazio alla visione pura e semplice, alle immagini di repertorio, ai filmati privati dei protagonisti e alle loro forografie che, nei divertenti titoli di coda, si susseguono a formare una lunga galleria di volti del passato e del presente. Ma gli ultimi fotogrammi del film sono significativamente dedicati a mostrare le sale romane che rappresentano il microcosmo in cui il racconto si è snodato, il luogo della visione, della magia e della fantasia. Il cinema è in crisi? Lunga vita al cinema!Movieplayer.it
4.0/5