Il settimo lungometraggio di Paul Thomas Anderson, eccezionalmente uscito a soli due anni dal precedente The Master (da Magnolia in poi eravamo ormai abituati ad aspettare, in media, tra i quattro e i cinque anni per un suo nuovo lavoro), non è certo un'opera semplice da affrontare. L'iperbolica complessità della trama e il palese disinteresse nel volerla risolvere in un modo che sia anche lontanamente logico, ne fanno un film ostico che, sulle prime, può facilmente essere tacciato di incoerenza e insensatezza.
Questo è stato ad esempio il sentimento di molti spettatori americani che hanno visto Vizio di forma al cinema, così come di alcuni membri dell'Academy che hanno rilasciato alla stampa d'oltreoceano dichiarazioni anonime in tale direzione. Ed in fondo, ciò è perfettamente comprensibile, se si rimane ad una visione superficiale della pellicola del quarantaquattrenne cineasta losangelino, primo adattamento di un romanzo dello scrittore di culto Thomas Pynchon, la cui narrativa densa e labirintica sembrava fino ad oggi inadattabile sul grande schermo.
Al di là della razionalità
Vizio di forma, come d'altronde tutte le opere di Paul Thomas Anderson a partire in particolare da Il petroliere (2007), esige un notevole sforzo interpretativo da parte dello spettatore e, soprattutto, una seconda visione (per non dire una terza e una quarta). Se ci si concentra sulla trama cercando disperatamente di far quadrare il tutto, sarà impossibile godersi il film. Ad un certo punto infatti ci si rende conto che lo sviluppo della storia, nelle sue molteplici e contraddittorie evoluzioni animate da un caleidoscopio di personaggi che spesso sembrano uscire fuori dal nulla, ha poco a che vedere con una logica strettamente razionale. Quello che veramente conta, è lasciarsi andare alla straordinaria bellezza delle immagini (regia, fotografia, scenografia e costumi sono di livello eccelso), ai passaggi chiave tra alcune sequenze e ai numerosi indizi visivi e sonori disseminati nel corso dell'opera. Solo in questo modo si può davvero cogliere il senso di Vizio di forma, un film che si è in grado di apprezzare - con la concreta possibilità di rimanerne poi estasiati - se si impara a stare al suo gioco.
La risposta è sotto il nostro naso (o meglio, disegnata sulla locandina)
Abbastanza paradossalmente, il significato più profondo di un lavoro così elaborato è suggerito con evidenza dalla bellissima locandina, come lo stesso Paul Thomas Anderson (che non a caso l'ha ideata e poi realizzata insieme a un gruppo di grafici) ha dovuto implicitamente ammettere nell'incontro con la stampa che si è svolto a Roma a fine gennaio. Nel poster, alcuni dei personaggi principali che animano lo psichedelico e bizzarro mondo di Vizio di forma - solo per citarne quattro, il poliziotto Christian 'Bigfoot' Bjornsen (Josh Brolin), l'improbabile avvocato esperto di diritto marittimo Sauncho Smilax (Benicio Del Toro), il vice procuratore distrettuale Penny Kimball (Reese Witherspoon) e l'ex ragazza di 'Doc' Shasta Fay Hepworth (Katherine Waterston) - sono disegnati intorno alla testa di Larry 'Doc' Sportello, il protagonista magnificamente interpretato da Joaquin Phoenix. Proprio come fossero un parto della sua immaginazione, influenzata tra l'altro dal frequente uso di marijuana e anche di droghe più pesanti. Anderson, significativamente, ha inoltre ammesso che la parte che più gli piace della locandina è il dettaglio della "mano di Shasta che fa pressione sulla testa di 'Doc'". E il fatto che la storia del film nasca da Shasta e dalla sua richiesta di aiuto a 'Doc', da questo punto di vista, non può essere considerata frutto del caso. Per di più, in tutte e due le occasioni in cui Shasta va a trovare il protagonista a casa, troviamo quest'ultimo sdraiato sul divano, in una posizione che rimanda al momento del sonno.
Anche solo partendo dalla locandina di Vizio di forma, dunque, possiamo avvicinarci al senso complessivo del film che, per tutte le due ore e mezza di durata, ci suggerisce in moltissimi modi di trovarci di fronte a una proiezione onirica del protagonista, piuttosto che a un tradizionale racconto noir di una verosimile indagine condotta da un detective privato.
La dimensione onirica di Vizio di forma
Durante i propri vani tentativi di risolvere il caso, 'Doc' si imbatte casualmente in personaggi che, uno dopo l'altro, fanno progredire la sua investigazione sui generis o lo tirano fuori da una situazione pericolosa senza che lui faccia praticamente nulla. Se gli serve trovare un luogo, nella scena successiva arriverà nel suo ufficio un personaggio che gli spiegherà la nascita di quel luogo e perfino dove si trova (è il caso di Tariq Khalil e il complesso edilizio "Channel View Estates"); se deve ricercare un uomo, quello stesso uomo gli verrà presentato poco dopo da una donna conosciuta in circostanze singolari (vedi l'episodio che coinvolge Coy Harlingen, la moglie Hope e la prostituta orientale Jade); se deve liberarsi di una cospicuo quantitativo di droga rubato e giunto in suo possesso, di lì a breve riceverà una telefonata con la proposta di consegna della droga senza alcuna conseguenza (l'episodio che coinvolge l'avvocato Crocker Fenway, padre della giovane Japonica che 'Doc' in passato aveva aiutato). In più di una circostanza inoltre, per citare un ulteriore caso di avvenimenti difficilmente definibili come realistici, quando 'Doc' pensa a 'Bigfoot' o ne parla con altre persone, il poliziotto appare improvvisamente nel giro di qualche secondo.
Di esempi di questo tipo se ne potrebbero fare a decine e un loro elenco riempirebbe da solo lo spazio di questo articolo. Se poi a tutto ciò aggiungiamo anche la presenza di un narratore, Sortilège (la musicista Joanna Newsom, scelta proprio per la particolarità della sua voce suadente), che nel libro di Pynchon esiste esclusivamente come personaggio interno alla trama e con cui nel film interagisce il solo 'Doc', anche nei casi in cui sulla scena sono presenti altri personaggi, allora il quadro inizia ad assumere dei contorni piuttosto chiari. Le stesse scelte musicali sono indicative: basta pensare alle malinconiche note di Journey Through The Past di Neil Young che accompagnano il ricordo dell'intenso momento passato insieme da 'Doc' e Shasta sotto la pioggia, oppure alla conclusiva Any Day Now di Chuck Jackson sui titoli di coda (il cui testo dà un'indicazione precisa su come interpretare il finale e, di conseguenza, il film tutto).
Per quanto riguarda invece la regia, nella stessa direzione va il frequente uso della dissolvenza incrociata nei passaggi da una sequenza all'altra, chiara scelta stilistica che suggerisce la forte presenza di una dimensione onirica che sottende l'intera opera. Come lo stesso Anderson non ha potuto smentire alla presentazione stampa romana, nonostante sia sempre stato restio all'avallare o proporre indicazioni sulle interpretazioni dei suoi film, tutto Vizio di forma può - e per chi scrive dovrebbe - essere visto come un lungo sogno fatto dal protagonista, attraverso il quale il magistrale cineasta californiano ci conduce a riflettere sulla fine di un sogno e di una illusione più grandi, legati a doppio filo alla cultura statunitense a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta.
Gli Stati Uniti e l'innocenza perduta
Così come nell'omonimo libro di Pynchon, cui Anderson rimane molto fedele (ad eccezione del già citato ruolo del narratore e del finale appositamente scritto per il grande schermo), uno dei temi centrali è la definitiva perdita dell'innocenza della cultura americana tra gli anni Sessanta e Settanta. Le morti e l'insensata tragedia della guerra in Vietnam, le politiche conservatrici di Nixon e la deriva della cultura hippie incarnata dagli efferati omicidi compiuti da Charlie Manson e la sua gang (tutti eventi citati nel corso del film), simboleggiano la fine della speranza che si respirava in quegli anni per la costruzione di un mondo migliore. Tutto Vizio di forma, di conseguenza, è pervaso da un profondo sentimento di malinconia per un Paese che poteva essere ma non è stato. Alcuni passaggi ripresi direttamente dal romanzo di Pynchon rimandano proprio a questo contesto: "Finché la vita americana fosse stata qualcosa da cui scappare, il cartello avrebbe continuato a fare grandi affari", oppure "Possiamo solo sperare che questa nave benedetta sia diretta a un migliore approdo, risorta e redenta, dove il fato dell'America, per fortuna, non è riuscito a trasparire", recita Sortilège.
Quell'intrinseco vizio di forma insito in ogni cosa
A spiegarci il motivo per cui le cose del nostro mondo spesso finiscono per non andare per il meglio, prendendo storicamente una piega negativa, ci pensa il titolo del film (Inherent Vice in originale, traducibile anche come "vizio intrinseco"). Solo apparentemente criptico e di difficile interpretazione, esso finisce infatti per essere rivelatorio della filosofia di Pynchon, sposata in pieno da Anderson e resa sul grande schermo con grande efficacia. Nell'ambito delle polizze assicurative marittime, per "vizio intrinseco" si intende tutto ciò che non può essere assicurato in quanto impossibile da evitare, come "le uova che si rompono, la cioccolata che si scioglie, un bicchiere che si frantuma", per citare ancora una volta Sortilège. In altre parole, tutto ciò che è destinato a deperire, consumarsi, finire. In altre parole ancora, la vita con i molteplici eventi che la compongono. D'altronde, Anderson ha chiaramente dichiarato: "Spesso Pynchon sembra dirci che per interpretare la realtà o si parte dall'assunto che ci sia un'ampia cospirazione che contribuisce al verificarsi di tutte le cose negative che accadono, oppure ci deve essere questo vizio intrinseco, insito in ogni cosa".
La definizione di "vizio intrinseco", verso la fine del film, viene associata anche al personaggio di Shasta e questo fa inevitabilmente pensare al fatto che il rapporto tra lei e 'Doc', conclusosi già da tempo, non sia mai veramente ripreso. A ben pensarci, in fondo, le vicende così intricate di Vizio di forma non sono altro che il variopinto, vitale e commovente racconto onirico di un uomo che sogna di ritornare con la sua ex, senza probabilmente averne mai più l'opportunità, e che spera di continuare a vivere in un mondo - quello della cultura hippie degli anni Sessanta - ormai in via di estinzione.