Recensione Sucker Punch (2011)

Sucker Punch è per certi versi il film più personale di Snyder, certo quello più ambizioso, in cui la sua visionarietà è (teoricamente) in grado di liberarsi dai lacci di storie e personaggi creati da altri, per esprimersi in tutta la sua libertà creativa.

Visioni postmoderne

Ha voluto alzare il tiro, Zack Snyder, per questa sua prima opera tratta da un soggetto interamente suo. Del regista di 300 e Watchmen, d'altronde, si possono dire tante cose, ma certo non che non abbia una cifra estetica riconoscibile: cifra estetica che può piacere o meno, che ad alcuni può persino risultare irritante, ma che certo rappresenta un modo di narrare per immagini che, in un ambito con regole precise come quello del mainstream, ne fa a tutti gli effetti un autore. Sucker Punch è, da questo punto di vista, il suo film più personale, certo quello più ambizioso, in cui la visionarietà di Snyder è (teoricamente) in grado di liberarsi dai lacci di storie e personaggi creati da altri, per esprimersi in tutta la sua libertà creativa. Un progetto, diciamolo subito, forse troppo ambizioso, in cui la mancanza di equilibrio già riscontrabile in altre opere del regista diventa caratteristica invadente e strabordante nell'intero film, scavando suo malgrado un solco tra le intenzioni "alte" dell'operazione (un viaggio all'interno di una mente sconvolta, e più in generale nell'inconscio femminile) e una realizzazione sovraccaricata da un'estetica pop troppo spesso ridondante e mancante di un centro. C'è un po' di tutto, in questo film: ci sono i fumetti da sempre cari al regista, ci sono i videogiochi, al cui linguaggio si ammicca esplicitamente in più di una scena, c'è il nuovo cinema nipponico citato a piene mani (alzi la mano chi non ha pensato, vedendo certe sequenze, a film come Kyashan - La rinascita), ci sono il fantasy, le arti marziali e il cyberpunk. Cinema postmoderno per eccellenza, quindi, frutto di una contaminazione di linguaggi a cui ormai siamo abituati, portata però alle estreme conseguenze.


Il prologo è perfetto: in'unica lunga, cupa sequenza, siamo introdotti nell'inferno della vita quotidiana di Baby Doll (un'intensa Emily Browning), assistiamo al suo disperato tentativo di reazione, seguiamo in prima persona la tragedia che la porterà nell'altro inferno, quello che sarà teatro del film, la clinica per malattie mentali. Una scena martellata da una colonna sonora straordinariamente efficace (la scelta della musica, tutta improntata a composizioni rock spesso riarrangiate in chiave più dura e moderna, è uno dei punti di forza del film) ma anche mirabile esempio di sintesi narrativa. I personaggi a cui la sceneggiatura ci introduce sono archetipici, ma ben delineati: le due sorelle, la maggiore più matura e protettiva nei confronti della minore più irruenta, l'amica coraggiosa e leale, l'altra più timorosa. Anche i villain hanno il loro fascino, a cominciare dall'ambigua psichiatra interpretata da Carla Gugino e dal malvagio inserviente a cui dà il volto Oscar Isaac. La realtà del manicomio progressivamente sfuma nella fantasia della giovane protagonista, le sue visioni di mondi alternativi danno corpo al suo desiderio di libertà, e i suoi propositi di fuga si sostanziano in cinque oggetti da recuperare, un percorso a tappe da compiere prova dopo prova, quasi come in un videogioco. Un percorso guidato dall'enigmatica figura di Wise Man, presenza neanche troppo velatamente eletta dalla protagonista a sostituta del meschino genitore, in cui Baby Doll riuscirà a coinvolgere col suo anelito alla libertà le quattro compagne.

Uno dei problemi di Sucker Punch è proprio la strabordanza visiva dei sogni della protagonista, con un sovraccarico di simbolismi che, laddove non funzionali alla narrazione (la katana con le tappe del viaggio che vediamo all'inizio, per fare un esempio) appaiono gratuiti e un po' fastidiosi. La stessa messa in scena delle visioni, programmaticamente roboante ma spesso anche affascinante, finisce per annoiare priva com'è di un collante narrativo, con l'unica eccezione del personaggio del già citato Wise Man (un carismatico Scott Glenn). Il film appare generalmente schiacciato tra le sue ambizioni d'autore, frutto di una sceneggiatura storicamente contestualizzata (siamo negli anni '50) che vuole parlare dell'universo femminile, della sua sopraffazione istituzionalizzata, ma anche dell'anelito alla libertà e del confine tra realtà e sogno, e una messa in scena eccessivamente anarchica, tanto barocca ed eccessiva da far sorgere in più di un'occasione il dubbio del compiacimento gratuito. Tuttavia, pur non convincendo appieno, vanno salvate le intenzioni del film e l'indubbio fascino che emana dalle sue immagini, frutto del lavoro di un regista che ancora una volta si dimostra più bravo di quanto (probabilmente) tenga ad apparire. La sua capacità di narrare per immagini e di amalgamare (anche spregiudicatamente) i linguaggi potrà certamente dire ancora molto.

Movieplayer.it

3.0/5