È stato probabilmente durante il maccartismo che è nata, tra le strette maglie delle pellicole della major, la corrente cinematografica che cominciò ad utilizzare la fantascienza e l'horror per parlare della "sindrome di assediamento" in cui la società occidentale ha cominciato a vivere in quel periodo. Un cinema che dopo Don Siegel ha avuto tra i maggiori esponenti John Carpenter, il quale è stato in grado di allargare il raggio di metafore linguistiche per rappresentare sentimenti nocivi sempre più insediati dentro il tessuto sociale.
Un discorso che è stato in grado di accompagnare le trasformazioni dei fantasmi dell'Occidente e che ha avuto un nuovo slancio all'inizio del Duemila con l'affermarsi della psicosi dovuta al terrorismo internazionale e, recentemente, con la pandemia, in cui sono venuti alla luce i sentimenti più primitivi e i tratti più ossessivi e paranoici dell'essere umano. Questo è il focus principale intorno al quale si muove Vincent Deve Morire, l'opera prima di Stéphan Castang, presentata alla Semaine de la Critique di Cannes 77 e al cinema con I Wonder Pictures.
Tra una rivisitazione dei grandi classici e un linguaggio sfumato con quello del b-movie transalpino moderno, la pellicola ben si incastona nella narrazione della crisi autodistruttiva della società contemporanea, partendo dalla rabbia delle realtà urbane per poi avventurarsi nelle libertà distopiche. Il tono da commedia nera prova a smussare la schizofrenia di una sceneggiatura che qualcosina fa fatica ad integrare, ma nel complesso Vincent Deve Morire è assolutamente un lavoro ben riuscito.
Una giorno di ordinaria follia al contrario
Vincent (Karim Leklou) lavora come graphic designer in uno studio di comunicazione nel centro di Lione. Il suo ruolo è quello di immaginare la realtà, cercando di crearla per gli altri - come ci tiene a far comprendere i regista sin da subito - anche se, incredibilmente, non presta molta attenzione alle attività fantasiose e oniriche di chi gli sta vicino. Come se alla fine dei conti ciò che gli accade intorno non gli interessi poi fino in fondo. Peccato che sarà proprio la realtà a prenderlo di mira.
Un giorno infatti viene improvvisamente attaccato da un giovane stagista che fino a quel momento si era sempre dimostrato tranquillo e volenteroso. La spiegazione che tutti nell'ufficio si danno è un eccesso di stress, mentre Vincent pensa possa essere stata magari una reazione dovuta ad una battutaccia fatta al ragazzo qualche ora prima. Due spiegazioni che (più o meno) reggono, fino a quando l'uomo viene nuovamente aggredito da un altro collega armato di biro in modo ancora più aggressivo.
Due episodi che aprono la strada ad un delirio in continua espansione che vede Vincent venire attaccato da chiunque si ritrovi ad incrociare lo sguardo con lui, come preda di un raptus omicida. Questo porta il grafico a fuggire in campagna alla ricerca dell'isolamento forzato dal resto del mondo. Uno status in cui troverà nuovo conforto grazie ai consigli di un blog online composto da persone nella sua stessa situazione e ad una relazione improvvisa con Margaux (Vimala Pons), una giovane cameriera. Grazie soprattutto alla vicinanza con la ragazza la sua fuga, apparentemente senza soluzione di continuità, troverà una drammatica svolta proprio nel momento in cui la realtà intorno a lui muterà ancora.
Siamo mai stati capaci di vedere l'altro?
Per il suo esordio Stéphan Castang cerca la giusta misura tra complessità e semplicità per raccontare il deterioramento delle relazioni umane, l'aggressività crescente, l'esplosione di rabbia immotivata e l'incapacità di "vedere" l'altro nella società post pandemica. Lo fa attraverso delle allegorie intuibili (basta in incrocio di sguardi a far cadere chi di turno preda di una follia omicida) e un linguaggio ben riconoscibile al pubblico perché avente le sue radici in un immaginario ormai radicato e rivisto attraverso un filtro borderline riconoscibilissimo, diviso tra la commedia nera e l'orrore distopico.
Nel raccontare il dramma che vive il suo incredulo protagonista, il film dà vita alla cronaca di un autoesilio che da sociale diventa psicologico. Una chiusura in se stessi che inizia come eco di una dimensione dovuta ad una realtà che lo imponeva per poi divenire una necessità ricercata per sopravvivere a ciò in cui il mondo si è oramai trasformato. Una grande allegoria della realtà in pandemia e post pandemia, in cui le ristrettezze e i divieti traumatici a cui è stata sottoposta l'area relazionale e comunitaria è sfociata in un deficit intimo che ha trovato il suo sfogo nell'aggressività reciproca. Vincent deve morire è molto preciso in questo particolare, prima denunciando l'alienazione lavorativa e poi smontando pezzo per pezzo il senso di comunità, di famiglia, di matrimonio e di vicinato. Il dramma è che forse l'empatia non è mai esistita, a prescindere dai raptus. Questa possibilità è ciò che sposta il quesito della pellicola al livello successivo: "perdere la capacità di poter vedere chi ci sta di fronte ha veramente cambiato qualcosa in noi?".
Al netto di qualche forzatura in sede di sceneggiatura, soprattutto in seguito all'introduzione della storia d'amore (le cui logiche sono a tratti esagerate), l'idea di racconto schizofrenico tra percezione e realtà di Vincent deve morire porta a casa il risultato, anche grazie ad una regia precisa, trovando per di più il senso metaforico del suo esistere in un messaggio finale dal sapore dolceamaro, e incredibilmente preciso. Quello che infatti Castang ci dice, è che l'umanità per ricominciare a sentire l'altro dovrebbe sfiorare l'apocalisse. Un'idea di speranza nel bel mezzo del caos più assoluto.
Conclusioni
Nella recensione di Vincent Deve Morire vi abbiamo parlato dell'esordio alla regia di Stéphan Castang, un horror politico dalle tinte distopiche che utilizza il linguaggio da commedia nera per raccordare un tipo di cinema classico con la visione contemporanea. Un racconto fortemente allegorico che racconta la dimensione assediante che ha acquisito il privato dell'uomo occidentale, preda di una società post pandemica in cui la rabbia cieca sovrasta ogni tipo di empatia portando l'umanità sulla soglia delle estreme conseguenze.
Perché ci piace
- Il dialogo tra commedia e horror.
- Lo spunto allegorico.
- Il messaggio finale.
Cosa non va
- Il film non raccorda tutti i discorsi che inizia.
- Diverse forzature.