E' un interessante esordio, il secondo titolo del catalogo di Distribuzione Indipendente in questo 2013: Vietato morire è infatti il primo lungometraggio del ventiquattrenne Teo Takahashi, giovane regista romano dalla formazione cinematografica, con già alle spalle una discreta esperienza nella realizzazione di corti. Qui, Takahashi dirige un vero e proprio docu-fiction sullo sfondo di un livido paesaggio metropolitano: centro della narrazione, le storie (vere) di ospiti e operatori di Villa Maraini, storico istituto romano dedicato alla cura delle tossicodipendenze. Il film si concentra soprattutto sulle vicissitudini di Patrick, giovane eroinomane che stabilisce un difficile e discontinuo rapporto con la struttura, mentre intorno a lui si agita un microcosmo di fallen angels dannati e dimenticati, che all'inferno della tossicodipendenza devono aggiungere quello dell'emarginazione e dell'invisibilità.
Del film, della sua realizzazione e della ormai ultratrentennale realtà di Villa Maraini, hanno parlato in conferenza stampa il regista insieme agli "interpreti" del film (le virgolette, data la particolare natura della collaborazione, sono d'obbligo): tra questi, i protagonisti Patrick Ramalho e Arianna Di Cori, e l'operatore della comunità Giancarlo Rodoquino.
Takahashi, cosa ti ha spinto a dirigere un'opera del genere?
Teo Takahashi: Più che di spinta parlerei di necessità: raccontare uno stato di cose che non può non interessarci tutti. Una necessità forse anche un po' egoistica, a dire la verità. Si è creata un'alchimia particolare durante le riprese, tra il personale della Villa e noi che abbiamo lavorato al film.
Il film è stato prodotto da Andrea Pirri Ardizzone, ed è costato 6000 euro compresa la post-produzione. Di problemi produttivi ne abbiamo avuti un'infinità, come in ogni produzione indipendente, ma nulla che non si potesse superare. Andrea era già mio amico e produceva videoclip rap: ci siamo un po' trovati, lui voleva fare un film e io avevo a disposizione questa storia.
Quanto, di ciò che vediamo nel film, è costruito, e quanto è invece colto dalla realtà?
Pier Paolo Pasolini diceva che il cinema è il linguaggio scritto della realtà. Non sempre la realtà è una semplice cosa esterna a noi, da catalogare; spesso diventa invece elemento vivo e coscienzioso dell'opera. C'è stato un gran lavoro da parte di tutti gli attori: la maggior parte di loro non aveva esperienza di recitazione. Questo dimostra che la creatività e l'arte sono sempre presenti nella parte viva e passionale delle persone.
Perché hai scelto proprio Villa Maraini?
Perché è un posto assolutamente fuori dall'ordinario: si adotta la filosofia della riduzione del danno, non molto usata altrove, che ti colpisce appena metti piede lì. E' una filosofia che non prevede una cura unica per tutti, ma una personalizzata: è uno sviluppo che progredisce con le persone che vanno là e chiedono aiuto, ed è una cosa tangibile. Appena ho proposto a loro la cosa, c'è stata subito una grande partecipazione.
Di certi temi non si parla più, sono diventati ormai invisibili. Io, personalmente, sarei onorato se un lavoro del genere riuscisse davvero a fare luce, a sensibilizzare le persone su questi argomenti.
L'ambientazione intorno alla Stazione Termini è casuale o legata a un discorso sull'invisibilità quotidiana?
Giancarlo Rodoquino: Noi lavoriamo lì col nostro presidio sanitario dal '92. Quando abbiamo iniziato, su dieci ragazzi che vedevamo lì, otto erano sieropositivi. Dieci anni dopo, il rapporto si è invertito. Nulla è casuale, tutto ciò che è stato filmato è uno spaccato di ciò che noi, nel nostro lavoro, abbiamo potuto sperimentare.
Il finale aperto vuole suggerire una realtà ancora aperta?
Teo Takahashi: Certe realtà sono sempre aperte, e purtroppo non si chiuderanno mai del tutto.
Arianna Di Cori: Anch'io ho conosciuto, in prima persona, questa realtà, e ritrovarmi a Villa Maraini in un'altra veste è stato molto importante. Io ne sono uscita, ma restano in fondo delle ferite, che credo siamo riusciti a comunicare. Il finale è aperto perché certe ferite restano aperte, non si possono chiudere mai del tutto.
Patrick Ramalho: Alla fine, ho interpretato me stesso. Ci siamo tutti appassionati al progetto, che era nato inizialmente come un cortometraggio. Io già conoscevo Teo, siamo tutti amici, e la cosa non ci è pesata. Il film mi ha anche dato una spinta a tornare a Villa Maraini, e a riprendere la mia vita in mano.
Secondo voi, il film è davvero vicino alla realtà di certe situazioni? Giancarlo Rodoquino: La realtà è molto più cruda rispetto a quello che si vede nel film: non sarebbe possibile raccontare tutto ciò che ho visto in vent'anni di lavoro intorno alla stazione. Noi vedevamo sette-otto overdose ogni sera. In questi anni avremo salvato almeno 500 persone.
L'attività della comunità ha risentito dell'attuale crisi delle finanze pubbliche?
Purtroppo sì. Lo stato non ci ricompensa, ed è più difficile per noi aiutare chi sta male. Combattiamo con la regione per avere il metadone, per esempio: adesso dobbiamo comprarlo, nessuno ce lo regala.
Teo, prima hai citato Pasolini. Quanto la sua opera ti ha influenzato? Teo Takahashi: Lui è una personalità che ci ha un po' influenzati tutti. Io cerco anche di seguire filoni già aperti, ed era impossibile in questo senso non accogliere il suo insegnamento. Nel film si vede anche una sua citazione, presa da una targa affissa all'Idroscalo di Ostia.
Quali sono i vostri progetti futuri? Teo Takahashi: Non so, pensavo di dirigere qualcosa di fantascientifico. Questo perché ormai andiamo verso un assetto del potere orwelliano, e se girassi una storia con quei toni, sarebbe destinata a diventare reale nel giro di pochissimo...Patrick Ramalho: Io, intanto, cerco intanto di riprendere in mano la mia vita. Ho delle passioni: faccio tatuaggi, sono diplomato come fonico. Ma la cosa principale ora è continuare nel percorso che ho iniziato.
Arianna Di Cori: Io non sono un'attrice di professione, ma mi piacerebbe continuare su questa strada: con opere, però, che abbiano un valore e comunichino qualcosa.