Vicerè senza corona
Il cinema italiano ha una certa difficoltà a parlare al proprio pubblico. Una difficoltà nel narrare storie avvincenti, dense, che parlino di sé stesse per parlare d'altro.
Che raccolgano la feconda posizione del regista turco/tedesco Fatih Akin, quando sostiene di usare narrativamente gli elementi politico-sociologici presenti nei suoi film, e non di usare i suoi film per evidenziarli. Ecco, di pellicole che utilizzino questo assunto, nel belpaese se ne vedono sempre meno, e l'ultima opera di Roberto Faenza è in qualche modo paradigmatica di questa deriva.
I Vicerè va incontro, in questo senso, ad un doppio passo falso. Il primo è quello dell'aver costruito intorno a sè un'abile operazione d'immagine volta a far passare il motivo di fondo della pellicola (una controversa storia familiare ai tempi dell'unità d'Italia) per ciò che non è (un film di profonda denuncia politica, nel quale è rintracciabile il profilo del paese oggi). Il secondo è quello di stemperare, spuntare, svilire in qualche modo, il messaggio politico pur così fortemente presente nel testo di Federico De Roberto, usando qua e là nella sceneggiatura dei brani estrapolati dal libro che si innestano forzosamente su un impianto che tende a tutt'altro. Ennesimo, ideologico impiego del film di denuncia, nel quale i passaggi narrativi che contengono un messaggio politico sono strumentali, non inseriti all'interno di una visione d'insieme.
Lo scambio di battute tra il protagonista e uno zio sulla mancanza di differenze programmatiche sostanziali tra destra e sinistra, per esempio, che viene entusiasticamente additato come esempio di preveggenza dell'autore del libro dal regista, è strumentale e disonesto. L'interpretazione che ne verrà colta dai più sarà ovviamente quella di un rispecchiarsi in quelle parole dell'Italia odierna, perché è lì che Faenza vuole condurre lo spettatore. Ma la narrazione si dimentica volutamente della contestualizzazione di quelle specifiche frasi in un'epoca in cui il parlamentarismo assumeva connotati estremamente diversi da quelli odierni, con l'assenza di organizzazioni partitiche di massa, vivendo sulla specificità degli eletti nei singoli collegi, su un suffragio estremamente ridotto, sul trasformismo depretisiano, termine la cui accezione aveva ben altro senso e significato rispetto a quello deleterio che con il tempo ha assunto. L'epoca, per intenderci, della destra storica e della sinistra storica.
Dunque non sbaglia il personaggio nella scena a citare letteralmente De Roberto (l'accezione di 'storiche' per due prospettive divergenti nel governo del Regno d'Italia ai suoi albori è infatti maturata con il tempo, impossibile da mettere sulla bocca di chicchessia nel 1872), ma sbaglia Faenza ad assolutizzare il discorso, a privarci delle giuste chiavi di lettura di un testo che per molti altri versi ha delle notevoli tangenze con l'oggi.
La valenza culturale del libro di De Roberto si diluisce così in un'operazioncina che infiocchetta ideologicamente quello che risulta dallo schermo come un melò dal sapore non poco televisivo.
Gli Uzeda (Lando Buzzanca, Alessandro Preziosi, Cristiana Capotondi) non convincono come "cattivi", come reali fautori di un malcostume che pian piano si è radicato nel belpaese, ma restituiscono l'immagine di una famiglia d'epoca con tutte le proprie piccole contraddizioni, i propri contrasti, esposti e messi in scena un po' rozzamente e con un certo macchiettiamo di fondo, e nulla più.
Ma dopotutto, se anche Rossellini era uscito sconfitto dal confronto con De Roberto, un motivo ci dovrà pur esser stato...