Vermiglio è, probabilmente, il miglior film italiano presentato alla scorsa Venezia 81. E appena salita sul palco della Sala Grande, il cuore della Mostra del Cinema di Venezia, Maura Delpero non ha trattenuto l'emozione, stringendo quel "leoncino da portare a mia figlia". A rimarcare la qualità del film, il Leone d'argento - Gran premio delle giuria, che la regista accoglie ringraziando "quelli che hanno conciliato lavoro e famiglia. Una sfida difficile, soprattutto per le donne". Nell'ipnosi di un film sensoriale, tra gli ultimi fuochi della seconda guerra mondiale e un futuro in arrivo, tra Chopin e l'Italia che verrà, la regista ha spiegato, durante l'incontro organizzato a Lido con la stampa, che il suo Vermiglio è frutto di un sogno: "Il film è nato dopo la morte di mio padre, che poi mi è apparso in sogno, da bambino, nella sua casa di infanzia. Lì ho iniziato a scoprire il film, in quanto racconta della mia famiglia in un tempo che non ho conosciuto. Dovevo riempire un vuoto. Da questo sentimento è nato il film".
La storia è quella di uno sperduto paesucolo nella Val di Sole del Trentino, chiamato appunto Vermiglio. Una sorta di frontiera, schermata dalle silenziose montagne. Se i cannoni della guerra stanno per tacere (siamo nel 1944), Vermiglio rappresenta - nell'aulica rappresentazione dipinta dalla Delpero - una sorta di punto di partenza, incrociando le personalità di tre sorelle (Martina Scrinzi, Rachele Potrich, Anna Thaler, del loro papà maestro elementare (Tommaso Ragno, gigantesco), e di un giovane soldato disertore (Giuseppe De Domenico) che creerà scompiglio in quel luogo pronto ad aprirsi verso il futuro. "Guardo sempre dentro, non fuori, quando lavoro", spiega la regista, "Mi metto in ascolto, e sento i moti dell'anima".
Vermiglio, il dialetto e la verità scenica
In Vermiglio è essenziale la geografia. È il luogo che struttura l'umore, enfatizzato dalla fotografia di Michail Kričman. Luogo, sguardo, e poi persone. Vere, reali, scovate cercando la verità scenica e mai la finzione. "Abbiamo fatto un lavoro di pre-casting e di pre-location. Siamo stati molto sul territorio, tra Trentino e la Lombardia", prosegue Maura Delpero. "Volevamo scoprire delle gemme rimaste, avvicinandomi alle persone e alle facce tipiche, perfette per muoversi in un certo spazio. Era essenziale fare un lavoro di misura, anche sul dialetto. Mi era stato chiesto di girare Vermiglio in italiano, ma mi sono opposta: una delle musiche del film è proprio il dialetto".
E gli occhi dei bambini, nel film premiato a Venezia, sono il raccordo della storia. "Lo sguardo dei bambini è ironico e fanciullino, pascoliano. Mi interessava raccontare un mondo oltre l'affresco storico: quello era un mondo di necessità e non di desideri. Tuttavia, i desideri per me c'erano, e allora cinematograficamente si sono rivelati una pentola a pressione", continua Maura Delpero, che ha appena iniziato il suo percorso verso la possibile candidatura all'Oscar come miglior film internazionale. Sui luoghi, la regista prosegue: "Ho vissuto in montagna e in pianura, due luoghi in cui si si muove in modo diverso. La montagna ti ricorda quanto sia aspra anche la natura. E in Vermiglio il paesaggio influenza molto le persone".
Vermiglio, la recensione: Maura Delpero ci racconta le quattro stagioni di una famiglia
Laura Delpero e la memoria collettiva
Vermiglio, tra l'altro, è un film in qualche modo legato ai ricordi intimi, che si fanno memoria collettiva. Una memoria che non può essere scissa dall'educazione. "Il mio è un film sull'educazione. Nel tempo si è perso il prestigio dell'educazione. E ho lavorato molto sulla pedagogia: c'è una volontà nel riguardare indietro". Sull'estetica, Maura Delpero confida che "Da una parte c'è un salto, dall'altra una continuità. Ricerchiamo un evoluzione su cui lavoriamo molto. A volte funziona, a volte no. Cerco un'immagine sintetica, di sinergia nello sguardo. Preferisco la poesia alla prosa. Provo a raccontare tutto senza raccontare. C'è stato un salto di dimensioni, ma c'è una continuità. Come peso ideologico e politico".