A qualcuno potrà apparire incomprensibile accomunare due film della presente stagione cinematografica, apparentemente molto diversi l'uno dall'altro. Ma riflettendoci bene delle connessioni tra essi ci sono. E non sono neppure troppo celate: entrambi parlano della rabbia giovane, che le nuove generazioni odierne non hanno, ed entrambi hanno a che fare con l'omicidio del padre, inteso in senso freudiano.
Playing the Victim, vincitore del premio della giuria popolare alla prima edizione della Festa del Cinema di Roma, è la storia di un giovane malato di ignavia, come molti giovani della nostra società contemporanea. L'inerzia e la noncuranza di Valya - questo il nome del protagonista - l'indifferenza rispetto alla propria vita e al mondo che lo circonda sono palesate dal suo stesso mestiere: "recita" la parte della vittima per la polizia, nelle indagini che ricostruiscono, sulla scena del crimine, degli efferati omicidi. Il suo è un ruolo passivo, recita sempre la parte di chi, comunque, è destinato a morire, ad essere assassinato. Valya è praticamente uno zombie, un morto che non sa d'esser morto. Anche nella vita, oltre che nel lavoro, Valya è passivo e vittima delle azioni altrui, non a caso ama indossare una maschera da coniglio e il pavimento della sua stanza è disseminato di coniglietti di gomma: la di lui madre e la di lui fidanzata, mosse da interessi personali - la madre vuole esser libera di sposare in seconde nozze lo zio di Valya, la fidanzata vuole finalmente sposare Valya - scelgono quale destino debba avere il ragazzo, programmando per la fidanzata una gravidanza volta ad incastrare Valya e a fargli "mettere la testa a posto".
Nel suo essere passivo, nel suo essere vittima consenziente, Valya non è affatto diverso da tutti i suoi coetanei che popolano il globo. È questa la dura scoperta che compie l'ispettore di polizia in un monologo agghiacciante e viscerale ma assolutamente pertinente: questi ragazzi vivono nell'inerzia morale, hanno tutto e se ne fregano di tutto, non si curano di nulla. Se ne fregano. Sono indifferenti. Ed è ad una generazione di indifferenti, che oggi sono poco meno che trentenni, che presto verrà consegnato il mondo: sono loro che presto o tardi verranno eletti sindaco di una qualche città, loro che siederanno in un Parlamento, o in Consiglio d'Europa, o nei seggi del Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite, loro che discuteranno dell'andamento globale, loro che prenderanno decisioni di vitale importanza per l'umanità tutta. E quando discuteranno, siederanno o verranno eletti o semplicemente voteranno per qualcuno, lo faranno con nel cuore questo semplice, piccolo, misero, potente pensiero: non me ne frega nulla.
Valya, però, non è esattamente come vogliono farci credere, non è assolutamente privo di coscienza e ce lo dimostra in una sequenza che passa quasi inosservata ma che è invece molto importante. Dopo un'indagine condotta in una piscina, a Valya ed al suo coetaneo collega poliziotto si prospetta la possibilità di far fuggire il detenuto reo-confesso d'omicidio che promette loro un'ingente ricompensa in monete sonanti. È Valya stesso, anzi, a suggerire questa soluzione sia al suo collega, sia al detenuto. È Valya stesso a convincere il collega coetaneo che liberando il detenuto e incassando il soldo risolverà la sua vita, potendo vivere a pancia all'aria in un paese dal clima caldo, lasciandosi alle spalle il lavoro schifosamente noioso di guardia. E Valya lo convince, il collega, lo convince al punto che quest'ultimo ha già estratto le chiavi delle manette per liberare il detenuto e farlo fuggire. Ma Valya lo ferma. Gli strappa le chiavi di mano e alle proteste del giovane poliziotto suo collega Valya risponde che si trattava solo di una trappola per metterlo alla prova, che ci sono azioni che non vanno fatte, anche se sembrano comode ed egoisticamente risolutive, perché bisogna rispondere alla propria coscienza, perché si hanno delle responsabilità verso se stessi e verso il prossimo, verso la società in cui si vive. Questa importante sfumatura del carattere di Valya quasi si perde nel resto delle sue bizzarrie, ma è invece una nota importante per comprendere il passaggio finale che porta Valya a ribellarsi.
Il protagonista di questo film non è dunque un giovane privo di coscienza come i suoi pari. E per questo acquista un significato più forte il suo atto finale. Valya inverte la tendenza che caratterizza la sua generazione e che sembra aver deciso definitivamente le sorti della sua vita: abbandona il suo ruolo passivo e da vittima diviene attore principale, decide del suo futuro e c'è solo un modo in cui possa farlo. Diviene l'omicida, il fautore del suo destino. Avvelena l'intera sua famiglia: lo zio futuro sposo della madre, la madre, la giovane sua compagna in attesa di suo figlio.
Lo sterminio portato a termine da Valya ha la stessa valenza delle violenze e degli omicidi che compie il protagonista de I pugni in tasca del primo Marco Bellocchio. Significano la riscossa di una generazione pigra e indifferente, ancora sotto il giogo degli adulti che scelgono per loro trattandoli da eterni ragazzini. Bisogna uccidere il padre per poter crescere. Bisogna uccidere chi detiene il potere per essere liberi. Bisogna uccidere il tiranno.
"A morte il tiranno!", ripete Martino, il giovane protagonista di N (Io e Napoleone). Martino è ben diverso da Valya, a diciannove anni è già padrone della sua vita tanto da lavorare come maestro in una scuola - ben diverso recitare il ruolo della vittima dal recitare il ruolo del protagonista in classe, che ha il suo pubblico di alunni ad ascoltare e ad imparare da lui! - è così padrone della sua vita da opporsi al volere della sorella e del fratello maggiore che lo crescono come un figlio dopo la morte dei genitori, così padrone della sua vita da essersi formato delle idee ben precise su ciò che è bene e ciò che è male. Non è affatto un'indifferente, Martino. Non ha mai frequentato le amicizie frequentate da Valya, si è anzi allontanato dai suoi coetanei e compagni di scuola, tutti arruolati nelle fila dei soldati che senza farsi domande devono solo sparare per eseguire gli ordini. Martino non esegue ordini, non accetta ordini e crede nella libertà. Ci crede talmente che è lucidamente ossessionato dal desiderio di uccidere il tiranno, Napoleone Bonaparte.
La figura del mentore che nel caso di Valya era rappresentata dall'ispettore di polizia, è qui espressa dall'anziano maestro di scuola di Martino: è lui l'uomo che gli ha insegnato la libertà, l'indignazione, la necessità di ribellarsi e resistere al potere. È l'anziano maestro, in un monologo accorato, a parlare della generazione dei giovani e a dare una dura e ultima lezione ai suoi vecchi alunni, compagni di Martino ma in divisa, loro, da soldati. Davanti al plotone d'esecuzione il vecchio maestro guarda in faccia i soldatini obbedienti col fucile in mano e li chiama tutti per nome: quel plotone sono i ragazzi a cui ha insegnato a leggere e scrivere, a cui ha insegnato la dignità, a cui ha insegnato ad essere liberi, a cui ha insegnato ad essere uomini degni di questo nome e così sono finiti, ad eseguire ordini senza usare il cervello, sono finiti schiavi. Schiavi. Li incita a sparare, allora, e siccome esitano il maestro glielo ordina di sparare, e loro sparano.
Martino è diverso dai coetanei che compongono il plotone col fucile alla mano. Imbraccia anche lui un'arma per uccidere, ma è stato lui stesso a giudicare e processare il condannato, l'imperativo che lo porta ad imbracciare il fucile o a stringere in pugno la pistola non è dettato da un comando superiore ma dalla sua etica: afferma infatti che non può scindere il suo lavoro dalla sua morale. È il senso etico a guidare ogni singola azione della sua vita. Ma compie un errore fatale, il giovane Martino. Lo stesso errore fatale che compie l'altrettanto giovane Amsterdam in Gangs of New York.
Entrato fortuitamente in contatto con Napoleone, Martino fa lo sbaglio di iniziare a conoscerlo, di guardarlo non più come uomo di potere, ma come uomo e basta. Non ha fatto a tempo ad imparare, il giovane Martino, che un tiranno non è un uomo, è un tiranno, e bisogna ucciderlo senza guardarlo in faccia per non essere persuasi dal suo aspetto umano, dalle lacrime di coccodrillo che certamente alle volte versa, dai suoi ricordi d'infanzia, dai suoi giochi e dal suo carisma.
Martino si accosta a Napoleone una volta di troppo e questo gli è fatale: non riuscirà mai ad assassinarlo e sarà da lui imbrogliato e tradito due volte. Napoleone gli prometterà che al suo vecchio maestro, che ha tentato di ammazzarlo, non accadrà nulla. E invece il vecchio maestro viene giustiziato. Martino lo vede cadere, coi suoi occhi, sotto i colpi di fucile e si sveglia dalla trance in cui Napoleone lo ha attirato, rinverdendo il suo antico intento tirannicida. Ma è troppo tardi. Napoleone è già in fuga dall'Isola d'Elba, è già lontano. Il padre non è morto e Martino non può sdoganarsi, tanto che dimentica ogni suoi impeto libertario, dimentica se stesso tanto da abbandonare l'intento di divenire scrittore e da piegarsi alla volontà dei fratelli, occupandosi degli affari della bottega di famiglia, anche lui con la pancia piena di una donna che presto gli darà un figlio.
La sete di libertà e di giustizia di Martino resteranno insaziate, come un coito interrotto, tanto da subire ancora, a distanza di tempo, il rigurgito dello stimolo e l'attrazione a tentare di nuovo di portare a termine l'opera incompiuta. L'ultimo tentativo di tirannicidio, di cui il film ci da notizia attraverso una didascalia, sarà di nuovo una frustrazione profonda perché Martino raggiungerà nuovamente Napoleone troppo tardi, quando di nuovo è già fuggito - questa volta per sempre - all'alba del 6 maggio, un giorno dopo la morte di Bonaparte.
Martino e Valya restano tra loro molto diversi. Quello che sembrava un perdente destinato a subire con indifferenza la sua propria vita, Valya, riuscirà a capovolgere la sua situazione, ad "uccidere il padre" e ad essere finalmente libero e padrone di se stesso. Quello che sembrava un vincente perché libero e intenzionato ad autodeterminarsi e a chiudere i conti con la tirannia "paterna", si lascerà invece soggiogare dal potere e non ucciderà mai il padre, restando per questo frustrato.
Se il cinema non è solo questione di forma ma anche di contenuto è certamente importante analizzare parallelamente Playing the Victim e N (Io e Napoleone), due film molto diversi e che in modo molto diverso, l'uno passando per gli sperimentalismi d'ultima moda, l'altro passando per la strada più battuta dalla tradizione italiana, la commedia, toccano in qualche modo lo stesso tema e lanciano in qualche modo lo stesso segnale: la necessità che le nuove generazioni che vivono nell'ignavia si destino e tornino a possedere la propria vita, la necessità che queste nuove generazioni, di cui anche io faccio ancora parte, si impossessino del mondo che già gli appartiene, la necessità che queste nuove generazioni mandino a casa i cadaveri che non hanno intenzione di mollare ciò che hanno conquistato e in punto di morte ancora gridano: "Roba mia, roba mia, vientene con me!". La necessità di crescere, uccidendo metaforicamente il padre. La necessità d'essere padroni della propria coscienza e di avere la capacità di indignarsi. Smettere d'essere schiavi. Entrambi questi film sembrano incitarci: "Su ragazzi, in un modo o nell'altro tutti lo hanno già fatto prima di voi. A morte il tiranno!".