Under the bridge, recensione: Riley Keough, Lily Gladstone e una serie sospesa tra realtà e immaginazione

Un labirinto pieno di dubbi, ipotesi e conferme da smentire: non perdete Under the Bridge, mini-serie in sei episodi disponibile su Disney+. Protagoniste Riley Keough e Lily Gladstone.

Under the bridge, serie Disney+

Non scorre acqua sotto il ponte di Victoria, e Under the bridge lo urla forte. Il fiume ha perso il suo corso, sostituito da correnti di violenza, di sangue colante, di discriminazione e tormento. Sono passati pochi minuti dall'inizio di questa mini-serie disponibile su Disney+, eppure già si percepisce quel sapore acre, metallico, che intacca i palati dei suoi abitanti. E allora mai come adesso, quella descrizione così bucolica di un paesaggio che pare spettrale ("Quest'isola è il paradiso. È sicura, è pulita. Perché qualcuno dovrebbe volersene andare?") lascia ben presto spazio a un dipinto di un ambiente infernale, attraversato da anime in pena, attirate dalla cieca rabbia.

Under the bridge, chi ha ucciso Reena Virk?

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Riley Keough è la giornalista Rebecca Godfrey

Era il 1997 quando il corpo della 14enne canadese Reena Virk, ciene ritrovata nel fiume non lontana da casa, a Saanich, nel British Columbia. Reena, di origini indiane, era già stata vittima di bullismo. Il 14 novembre andò a una festa e non tornò più a casa. Picchiata, torturata, per l'omicidio vennero processati il 16enne Warren Glowatski e altre sei ragazze. La serie Under the Bridge ricostruisce la vicenda in sei episodi, seguendola dal punto di vista della giornalista Rebecca Godfrey (Riley Keough) e dell'agente di polizia locale, Cam Bentland (Lily Gladstone).

La luce flebile dell'innocenza

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Under the Bridge: una scena

Non c'è mai luce sotto il ponte. I raggi del sole ci provano a farsi spazio, a trovare uno spiraglio per illuminare un mondo ormai ingoiato dalle tenebre. Tutto in Under the bridge è desaturato, depotenziato nella propria luminosità, come una lampadina flebile, alimentata da una lieve scarica di energia. È una fotografia, quella della serie di Quinn Shepard, dove il predominio dell'ombra ha già stabilito la propria sentenza, spegnendo l'ambiente immortalato, proprio come si spegne una joie de vivre tipicamente adolescenziale. Sebbene circondati da ombre profonde, i personaggi sulla scena appaiono piatti, bidimensionali, figurine di un album di papabili colpevoli, filtrati da una tonalità seppia incapace di accendere un mondo che ha già abbracciato l'oscurità. I loro stessi volti sono spesso divisi a metà, risultati di una lotta intestina tra luci e ombre, quasi a voler enfatizzare la loro indole enigmatica, la loro essenza frammentata.

Il virus della rabbia nel corpo giovanile

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Lily Gladstone è Cam Bentland

Quello di Under the bridge è un sistema immunitario indebolito dal virus di una contemporaneità accecata dal dolore, dalla violenza, dalle sofferenze da infliggere sugli altri piuttosto che provarle sulla propria pelle. È un microcosmo dove la crudeltà di un caso reale incontra la fantasia di sceneggiatori che accolgono gli elementi da analizzare, le testimonianze da ascoltare, per dar vita a una creatura ibrida, capace di parlare all'anima degli spettatori, lasciandoli inermi, attoniti, frammentati come ossa spezzate dalla forza di mille calci. Il suo presente narrativo viene quindi interrotto e integrato da continui salti indietro, flashback di un passato in cui una semplice ragazza si lascia affascinare dalle arti ammaliatore di diavoli in terra vestiti da adolescenti. Abiti larghi, un filo di trucco, Reena non intende attirare l'attenzione degli altri su di sé, eppure è bisognosa di affetto. Nella ragazza vive quell'insicurezza senza tempo, un sentimento di inadeguatezza che scorre nello strato sottocutaneo di intere generazioni; una sfiducia in se stessi che getta queste anime fragili tra le braccia dei primi che offrono loro interesse, chiedendo in cambio la loro innocente ingenuità.

La recita della colpa

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Il panorama di Under the Bridge

Corsa alla ricerca di un responsabile, tutti nell'isola di Victoria sono papabili colpevoli. Ma all'interno della serie ideata da Quinn Shepard non vi è più quel gusto del brivido tipico del più canonico whodunit. Ogni ipotesi si fa conferma da smentire, testimonianza da ignorare. Un gioco alla caduta di ogni certezza favorito da una regia coesa, armoniosa nonostante i diversi autori che vi si celano dietro (da Cahterine Hardwicke a Geeta Vasant Patel, regista tra l'altro di tre episodi di House of the Dragon) e da performance ipnotiche, enigmatiche, dove gli attori si fanno performer alla seconda, chiamati a interpretare personaggi a loro volta insigniti di un copione da recitare, salvo la prigione, salvo la colpevolezza. In questo costrutto meta-teatrale, Riley Keough e Lily Gladstone si elevano a capocomiche di una compagnia dove la dissimulazione non vuole soltanto dare un volto all'omicida di Reena, quanto farsi antidoto contro il rimpianto, catarsi esorcizzante sensi di colpa trattenuti come sangue rappreso sui pantaloni.

La parola ai (presunti) colpevoli

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Un primo piano di Archie Panjabi

È una caccia al colpevole dove tutto è affidato al potere della parola, quella che modella, che falsifica, che crea alibi e realtà alternative. Tutto è giocato sul potere del racconto a discapito di un'azione ridotta ai minimi termini. Per una società come quello contemporanea bombardata da notizie di cronaca, di azioni deplorevoli, di gesti di pura violenza, i personaggi si riducono a narratori e non più ad agenti; parlano, ma non agiscono. Le botte inferte e subite, vengono rilegate nel buio del fuori campo; mai mostrate, sono lacune che è lo spettatore a colmare con la propria immaginazione. A lui vengono tuttalpiù consegnate le conseguenze di tali azioni, tra corpi indolenziti, vestiti insanguinati, ego fomentati dalla violenza.

Il dolore della visione

Ogni tassello delle sei puntate di Under the bridge viene inserito aderendo perfettamente agli altri, per poi rivelare la sua forma emulatrice, ingannevole, disorientante. Eppure, in questo labirinto chiamato costantemente a portare lo spettatore fuori strada, qualcosa stride, rischiando di far crollare un castello di sabbia apparentemente impermeabile. Vi sono sequenze, o scenari, del tutto inutili all'economia del racconto, inseriti a fatica per allungare un brodo di per sé già perfettamente gustoso.

La storia della famiglia di Reena, ad esempio, appare del tutto fuori luogo e incapace di instillare nella mente dello spettatore il tarlo del dubbio. È una parentesi aperta su contesti sacrificabili, che frenano un bolide già lanciato nella sua corsa verso la fidelizzazione dello spettatore. Sottotrame come questa sono minutaggi che nel contesto di un processo di immedesimazione affettiva con il proprio pubblico, potevano essere destinati alla disamina e al recupero di quei fantasmi del passato che infestano le menti di giovani ragazze giostrate dall'odio, dalla solitudine, dalla paura.

È un fiume di dolore quello che scorre in Under The Bridge: la sua corrente è ammantata di ombre luttuose, di parole nefaste, di violenza gratuita. Eppure, in tanto dolore, lo spettatore trova barlumi di speranza, slanci catartici per dolori intimi, capaci di purificarlo come le acque del Gange, o di un fiume freddo, intinto di sangue, come quello di Victoria.

Conclusioni

Concludiamo questa recensione di Under the bridge sottolineando come la serie in sei puntate disponibile su Disney+ riesca appieno a immergere lo spettatore nelle acque più profonde di un'indagine dove tanto viene detto, e poco mostrato. Si attiva così un cortocircuito tra realtà e immaginazione in cui tutto appare vero, per poi risultare finto, falsato, inesatto.

Movieplayer.it
4.0/5

Perché ci piace

  • Le due attrici protagoniste, Lily Gladstone e Riley Keough.
  • L'uso della fotografia, capace di immergere nelle ombre anche i più insospettabili.
  • Il lasciare le azioni di violenza nel fuori campo.
  • L'uso sapiente della colonna sonora, in pieno stile anni Novanta.

Cosa non va

  • Alcuni subplot totalmente inutili ai fini del racconto, come la storia della famiglia di Reena.
  • Non aver indagato sul passato difficile delle giovani protagoniste.