Una parabola in noir
Anni '60, in un paesino della campagna veneta. Un ragazzino è davanti a una commissione esaminatrice, che lo scruta con malcelato senso di sufficienza. La pesante cadenza dialettale tradisce le sue origini contadine, in un periodo in cui il boom economico non ha ancora toccato quelle zone del paese, pur appartenenti al settentrione, ancora legate alle tradizioni della campagna. Il ragazzino legge un passo della Divina Commedia, e in meno di un minuto lo memorizza e lo ripete; poi, davanti agli occhi esterrefatti degli uomini, lo recita al contrario. Circa un ventennio dopo, nei rampanti anni '80, un gruppo di uomini si prepara a una rapina nella sede di un aeroporto: a guidarli, un leader dallo sguardo duro, determinato. Con loro, un arsenale di armi da fuoco, pronte ad essere usate; ma il colpo si concluderà senza lo spargimento di una goccia di sangue. Il bottino, una ingente quantità d'oro, verrà sottratta con una facilità sconcertante. Altro salto indietro nel tempo, a metà anni '70: quel ragazzino è ora un giovane dedito a piccole azioni criminali, mentre la nuova borghesia veneta sventra con ville e cemento quella campagna i cui figli continuano ad essere guardati con disprezzo. Ma quel giovane pensa in grande, ed è convinto di potersi prendere la sua rivincita toccando il cielo; di poter riscattare le sue origini senza tradirle. La sua vertiginosa scalata al mondo del crimine organizzato inizia da qui.
I motivi di interesse di questo Faccia d'angelo, liberamente ispirato alla storia della Mala del Brenta, e alla vita del suo leader Felice Maniero, sono molteplici. Se è vero che la storia del nostro paese, nel secondo dopoguerra, è quella di un lungo romanzo, un romanzo fortemente virato al noir, è vero pure che questo capitolo, di quella storia, non era stato ancora raccontato su uno schermo (piccolo o grande che sia). La scelta del mezzo televisivo, dopo il successo di una serie come Romanzo criminale - La serie, ha una sua logica; così come la scelta di cooptare da quest'ultima un attore come Elio Germano e di farne qui il protagonista assoluto. Germano risponde a questa sfida con una prova attoriale di grande personalità e livello: il suo Toso (questo il nomignolo dato all'alter ego filmico di Maniero) col suo sorriso beffardo e la sua ben riprodotta cadenza veneta, col fare spaccone e a suo modo tranquillo di chi vuole salire in cima al mondo ed è convinto di avere tutti i mezzi per farlo, resta ben impresso nella mente dello spettatore. Poco importa che il vero Maniero, nascosto in una località segreta per il suo status di collaboratore di giustizia, non abbia gradito la visione del promo ("E' una visione distorta della malavita, un malavitoso non si comporta certo così", ha detto l'ex boss. "E' solo una misera fiction da cassetta"): se, da una parte, il regista Andrea Porporati e gli sceneggiatori hanno preso l'ispirazione iniziale dal libro Una storia criminale, scritto proprio da Maniero insieme ad Andrea Pasqualetto, è pur vero che lo sviluppo della vicenda non vuole ricalcare per filo e per segno le gesta del boss e della sua banda. La fiction, quando non è esplicita ricostruzione biografica, fa bene a trarre le sue suggestioni dalla realtà, ma anche a svilupparle poi in una direzione originale. Se Faccia d'angelo merita la visione perché, come si è detto, illumina pur con le sue libertà narrative una parte poco raccontata della storia del nostro paese, se va probabilmente fatta la riflessione su un gusto del pubblico televisivo che vira al nero e rende (finalmente!) possibile la realizzazione di un prodotto come questo, va anche detto che il film TV di Porporati è, preso in sé, un buonissimo prodotto. Se la già citata presenza di Germano, con il suo volto, la sua parlata e le sue studiate movenze, innerva di sé ogni momento del racconto, anche quelli in cui il suo personaggio non è presente, il meccanismo narrativo del film, con i suoi frequenti salti nel tempo, si rivela perfettamente funzionale allo scopo del regista: quello di raccontare la parabola di un uomo dedito al crimine, e la sua ingenua, infantile pretesa di dominare anche la sua brama di potere. Il Toso è infatti un boss cinico e beffardo, uno scaltro imprenditore del crimine, ma anche un uomo ingenuo: la sua illusione di poter amare, nella sua posizione, senza alcun rischio per la persona amata, di fare il bene di sua madre (un'intensa Katia Ricciarelli) con gli sterminati proventi delle sue attività criminali, di ridurre il suo vorticoso giro di affari illeciti a una pulita, incruenta attività imprenditoriale, è quanto di più illusorio si possa concepire. Una figura figlia di una classicità dal taglio tragico, parente di tanti altri boss malavitosi visti sul grande e piccolo schermo, ma di cui viene accentuato l'aspetto infantile, la convinzione di operare in fondo per il bene proprio e delle persone a sé vicine, l'illusione di un futuro luminoso mentre il cammino è in realtà segnato verso un'oscurità nerissima. In più, va ricordato il contrasto, anche questo figlio di decenni di storia del genere, con i rappresentanti della legge, guidati da un sempre più determinato (e ostinato) Carmine Recano; e lo sguardo antropologico, rivelatore, su una realtà contadina che, anche dentro a una regione che è motore economico dello sviluppo, conserva le sue tradizioni ancestrali e rende possibile, nel suo seno, la crescita di un'esperienza criminale come questa. Compito del noir è in fondo, da sempre, anche quello di restituirci un po' della nostra realtà, trasfigurata ma sempre (e mai come ora) attuale.Movieplayer.it
3.0/5