Un terrorista per capello
La commedia, principalmente quella aglosassone, ha dimostrato negli ultimi dieci anni che si può scherzare di tutto o quasi. Le cose su cui non ci si è ancora presi gioco sono talmente indicibili che ovviamente ci guardiamo bene dal nominarle anche qui, ma si può scherzare del sesso, della morte, dei conflitti razziali e culturali, della politica, del terrorismo, della gerontofilia, della violenza sugli animali - e sperare ancora di essere ancora almeno un poco oltraggiosi. A questo repertorio attinge a piene mani Zohan, commedia sguaiata e demenziale che vede alla regia l'esperto di slapstick Dennis Dugan, alla sceneggiatura l'autore di grandi successi come 40 anni vergine e Molto incinta autentico comedy-guru Judd Apatow, e nel ruolo di mattatore (ma anche co-sceneggiatore) il talentuoso e simpatico Adam Sandler. Ma è forse opportuno chiarire da subito che un coacervo di political incorrectness anche in mano a bravi cineasti e solo perché tale non è necessariamente sorprendente né particolarmente dilettevole. In questo caso, ad esempio, siamo di fronte a un autentico naufragio.
Adam Sandler è Zohan Dvir, un agente delle forze speciali israeliane che, pur essendo il migliore nel suo campo e un'insostituibile risorsa per il suo paese, è stanco di una guerra - quella con i paesi arabi - che non sembra poter avere mai fine. Il suo sogno è quello di ritirarsi, trasferirsi in America e diventare un parrucchiere alla moda; peccato che quando condivide le proprie aspirazioni con i suoi cari venga immancabilmente deriso e chiamato fagala (yiddish per gay che difficilmente sovravviverà al doppiaggio italiano). Per liberarsi da impegni e pressioni Zohan organizza un piano diabolico: trasformare l'ennesimo scontro con la sua nemesi, il terrorista Phantom, nell'occasione per farsi credere morto e fare perdere le proprie tracce.
Così, dopo aver adottato una fittizia nazionalità australiana, un nome d'arte (Scrappy Coco, dai nomi dei due cagnoni incontrati nella stiva dell'aereo in cui ha viaggiato) e cambiato il proprio look, il nostro eroe approda a Manhattan presso il centro di hair styling dei suoi sogni. Ma la reazione che ottengono i suoi proclami e i suoi desideri non sono diverse da quelle suscistate in Israele. E i suoi metodi originali nell'approccio al mestiere ripugnano a qualsiasi potenziale datore di lavoro.
Una parvenza di trama e di progressione narrativa sono mantenute in piedi fino ai tre quarti della pellicola, per poi decadere lasciando spazio a una serie di sequenze inconcludenti, con tanto di amplificazione trash dovuta a un'apparizione della spaventevole Mariah Carey, e a una morale semplicistica e infantile. Si salva John Turturro, che ha il dono miracoloso di essere divertente e carismatico anche quando è alle prese con materiale del tutto improponibile come in questo caso.
Movieplayer.it
2.0/5