È un autentico boato, in un nuvoloso giovedì pomeriggio romano, ad accogliere Meryl Streep al suo ingresso sul palco dell'Auditorium, per il più atteso fra gli "incontri con il pubblico" nel calendario dell'undicesima edizione della Festa del Cinema di Roma. Sala gremita in ogni ordine di posto, atmosfera da evento epocale (e ci mancherebbe altro) e soprattutto tifo da stadio, con un calore e un entusiasmo che hanno surclassato senza difficoltà tutti gli altri appuntamenti del Festival di quest'anno.
Ma non avrebbe potuto essere altrimenti, del resto, quando si ha la fortuna di trovarsi al cospetto di un'attrice di tale levatura, da oltre tre decenni l'indiscussa First Lady del cinema americano, nonché di una donna tanto brillante, vivace e appassionata. Una donna, Mary Louise Streep, che indossa i suoi sessantasette anni con un'eleganza mai ostentata e con una spontaneità da ragazzina, e a cui bastano un sorriso, l'accenno di una gag - lei, che appena arrivata si 'spalma' sulla sua poltrona fingendo incredulità per la nostra standing ovation - per farci applaudire con ancora più forza.
L'inarrivabile Meryl tornerà nei nostri cinema dal 22 dicembre con la commedia Florence, vera storia della stonatissima aspirante soprano Florence Foster Jenkins, diretta da un maestro quale Stephen Frears e affiancata per la prima volta da Hugh Grant. Un soggetto che, appena un anno fa, aveva già ispirato il delizioso Marguerite, pluripremiato film francese con una bravissima Catherine Frot, ma che anche in questa nuova versione (più fedele alla vicenda originale) sembra aver fatto presa sul pubblico, con incassi di oltre quaranta milioni di dollari in tutto il mondo per la pellicola di Frears. Al Festival di Roma, però, Madame Streep ci ha parlato soprattutto dei classici della sua filmografia, che le hanno permesso di collezionare tre Oscar su diciannove nomination e di essere eletta a furor di popolo come la miglior interprete della sua generazione (e non solo)...
Gli esordi, dal set con Cimino a Kramer contro Kramer
Meryl, quali sono i tuoi ricordi del set de Il cacciatore e del regista Michael Cimino, da poco scomparso?
È fantastico rivedere Il cacciatore dopo centocinquant'anni, e quant'era bello Robert De Niro! Stavamo girando in un trailer in West Virginia e facevano trentacinque gradi: e io indossavo un maglione invernale e De Niro aveva la divisa completa da marine, fatta di lana... eppure lui non era mai sudato! Io invece ero zuppa di sudore. Michael Cimino me lo ricordo praticamente nudo sul set: era seduto vicino a Vilmos Zsigmond, il direttore della fotografia, con dei boxer italiani minuscoli... ma non fraintendetemi, solo i boxer erano minuscoli! Faceva caldissimo, non c'era un filo d'aria.
Ai tuoi esordi com'era il rapporto con i tuoi primi registi?
Io non sono 'educabile', e mio fratello potrà confermarvelo... nessuno può dirmi cosa fare! Però amo i registi, ho lavorato con i più grandi al mondo: Sydney Pollack, Mike Nichols, Karel Reisz, Alan J. Pakula... loro purtroppo non sono più qui, quindi alla fine ho avuto l'ultima parola. Un regista con cui vorrei tanto lavorare e non ci sono ancora riuscita? Martin Scorsese.
Come hai affrontato invece il tuo ruolo in Kramer contro Kramer?
Nel libro il personaggio di Joanna era descritto in modo molto vago, e il regista Robert Benton invitò me e Dustin Hoffman a dare il nostro contributo in merito e a scrivere la nostra versione della scena in cui Joanna viene chiamata a testimoniare al processo. Poi abbiamo votato la versione migliore... e ho vinto io! Quello era un momento storico particolare, la fine degli anni Settanta, in cui la gente iniziava a divorziare con frequenza; prima di allora il divorzio era un anatema. Fra l'altro, anche quando ho fatto il provino per Il cacciatore le battute di Linda erano pochissime e Michael mi propose: "Tu cosa diresti se fossi Linda? Dì quello che vuoi!". Pensavo che tutti i registi ci dessero questa libertà... ma poi ho lavorato con Harold Pinter e mi sono resa conto che non è così!
Le sfide di una fuoriclasse
Qual è la principale differenza nella recitazione fra il teatro e il cinema?
Quando recito a teatro, mi piace sentire il respiro del pubblico, mi piace sentire quando ridono... certo, solo quando si presuppone che la pièce sia divertente! Sono due cose molto diverse. Il cinema ti permette di offrire delle sfumature attraverso ogni dettaglio; anche a teatro questo è possibile, ma solo se tu hai instaurato una profonda empatia verso il pubblico, perché gli spettatori non possono vedere i dettagli... insomma, al cinema è più facile.
Qual è stato l'accento più difficile da adottare nei tuoi film?
L'accento nordirlandese per Ballando a Lughnasa. Avevo girato in passato Un grido nella notte in Australia, e l'accento australiano è una strana deformazione dell'irlandese, perché molti irlandesi furono deportati in Australia. Rifacendo invece l'accento irlandese puro mi trovavo spesso a scivolare senza volerlo nell'australiano.
In The Iron Lady, come hai fatto a interpretare con tale empatia una donna come Margaret Thatcher, essendo tu invece una donna di sinistra?
Ogni donna ha sperimentato un certo tipo di disprezzo nei propri confronti quando occupa un posto che non ci si sarebbe aspettati potesse occupare. Ho visto un filmato del Premier australiano che si rivolgeva alla leader dell'opposizione, e quest'uomo, con la sua sicurezza sprezzante nel demolirla e la claque alle proprie spalle, esprimeva un profondo sessismo... mi ha ricordato alcune scene del film. E tutti dicono a Hillary Clinton: "Non parlare troppo forte! Cerca di essere più attraente!", quando invece dovremmo ascoltare ciò che ha da dire. È stato interessante per me immergermi nel mondo di Margaret Thatcher, un mondo che sicuramente non era accogliente nei confronti di una donna al potere. E poi c'era anche una forma di discriminazione sociale... ciò che fa impazzire il popolo britannico è quando non sono in grado di distinguere a colpo sicuro la classe sociale delle persone. Il loro sistema delle classi è ancora rigidissimo; ho girato molti film in Gran Bretagna, e trovo interessante constatare quanto questo sistema sia radicato.
Mamma mia, how can we resist you?
Silvana Mangano e Anna Magnani sono due attrici italiane che ami moltissimo: come mai proprio loro?
Ho visto i loro film in un momento particolare per il cinema americano, in cui non c'erano molti ruoli femminili interessanti, mentre ho avuto modo di scoprire i film italiani e di conoscere queste grandi attrici nelle rassegne universitarie di film stranieri. Loro, così come Simone Signoret, erano creature esotiche per me, che appartenevo a una piccola vita in provincia. La Mangano l'ho vista per la prima volta in Morte a Venezia, e poi ho recuperato i suoi film precedenti; la Magnani l'ho vista invece per la prima volta in Pelle di serpente, accanto a Marlon Brando, li ho scoperti insieme! Entrambe esprimevano una grande purezza, la stessa che oggi vedo in Alba Rohrwacher.
Ti sei ispirata a qualche attrice italiana per interpretare il ruolo di una donna di origini italiane ne I ponti di Madison County?
Nella mia mente mi sarebbe piaciuto avere la bellezza di attrici come Silvana Mangano, ma per il personaggio di Francesca mi sono basata su una donna che viveva nel nostro quartiere quando ero bambina: si chiamava Nucci, un nome molto esotico. Era sposata con un soldato, e aveva un modo di parlare assai buffo e particolare.
In Mamma Mia! e in molti altri film hai dato prova delle tue doti canore: da piccola sognavi di diventare una cantante?
No. Però da ragazzina, a dodici anni, ho cantato in una recita scolastica O Holy Night in francese, anziché in inglese, e cantare in quel modo in New Jersey era davvero fuori dal comune. Mi fecero molti complimenti, e allora iniziai a prendere lezioni di canto ogni sabato mattina da un'insegnante di New York, a un'ora e mezza da casa mia; ma dopo un paio d'anni ho smesso... a quel punto volevo solo fare la cheerleader!