Un horror mal calibrato
Attesissimo, il ritorno di Pupi Avati dietro la macchina da presa. Non per una sua chissà quanto prolungata assenza (è dell'anno scorso La cena per farli conoscere), quanto per il fatto che erano dodici anni, dall'ormai lontano L'arcano incantatore, che il regista bolognese non tornava a cimentarsi con l'horror. Il suo La casa dalle finestre che ridono rimane infatti un piccolo cult del genere gotico italiano, e la riproposizione di Avati alle prese con un certo tipo di cinema di genere, ormai del tutto trascurato in Italia, destava numerose aspettative. Siamo chiari con il lettore: Il nascondiglio non risponde alle attese, non almeno nella maniera sperata. Questo non significa d'altra parte che la pellicola di Avati sia un brutto film. Al contrario si presta ad una molteplicità di letture, la sintesi delle quali fa propendere la bilancia sul lato delle occasioni perse piuttosto che su quello delle opere riuscite.
Si nota immediatamente (se la locandina non fosse bastata) come il regista strutturi la sua opera come se fosse un horror. Gli stilemi narrativi, le soluzioni sceniche adottate, rimandano proprio ai canoni classici di quel particolare filone del genere, eppure lo script se ne discosta non poco, puntrando, più che sulla meccanica degli effetti e sulla suggestione delle atmosfere, sulla centralità della protagonista, con i suoi dubbi, le sue incertezze e le sue paure, indirizzando la pellicola più sotto l'etichetta di thriller psicologico che sotto quella di un horror vero e proprio.
Questa 'deriva' globale della narrazione contrasta così con le scelte espressive, che spesso non appaiono funzionali allo scorrere limpido della narrazione.
Che bisogno c'è di costruire una lunga sequenza in cui l'attrice si avvicina in modo inquietante e circospetto ad un banalissimo telefono che squilla se al pubblico è già stata fornita l'informazione che ne sta per seguire una banale telefonata senza ulteriori colpi di scena nell'economia dell'inquadratura?
Questo solo uno degli esempi di come le cartucce ci siano, e Avati le sappia maneggiare bene (la sequenza in sè è costruita magistralmente) ma di come poi si ritrovi a spararle un pò a casaccio.
Altre scelte di questo tipo penalizzano il pathos ambientale, la creazione di un climax. La natura e i segreti del 'nascondiglio' di cui al titolo, vengono svelati attraverso una veloce quanto esplicativa inquadratura, sufficiente a depotenziare lo strano gioco delle parti che si instaura per tutto il corso della storia tra la protagonista e la casa nella quale va a vivere.
Un mix poco felice di scelte narrative e lavoro sulla messa in scena, l'improbabile amalgama priva di sintesi che ne vien fuori, si rivela il vero e proprio tallone d'achille del film di Avati.
Si potrebbe soprassedere ad una recitazione della Morante dal minimalismo ai limiti dell'irritante, così come ad una serie di ingenuità nel racconto che magari non inciderebbero a fondo sul livello qualitativo generale. Ma non si riesce a non notare come l'insieme sia mal calibrato, come i tasselli che compongono il puzzle globale non si incastrino alla perfezione.
Pure un'ottima realizzazione tecnica, che conferisce al Il nascondiglio uno spessore artigianale di grande dignità e solidità, non riesce a compensare quella sensazione di disomogeneità, di sfasamento tra i singoli elementi che, non lavorando all'unisono, risultano pur sempre di valore, ma non sortiscono l'effetto desiderato.