Recensione John Rambo (2008)

John Rambo è un film interessante quanto imperfetto, figlio della stessa tendenza al patetismo orgogliosamente anacronistico che aveva caratterizzato il precedente Rocky Balboa.

Un guerriero fuori dal tempo

L'icona reaganiana per eccellenza degli anni '80 è tornata: a vent'anni dalla sua ultima apparizione sul grande schermo (nel fallimentare Rambo III di Peter MacDonald), calato in un mondo e in un cinema completamente diversi da quelli che avevano fatto la sua fortuna, John Rambo torna a calcare gli schermi cinematografici mondiali: con un Sylvester Stallone ormai padrone in toto del suo personaggio, davanti e dietro la macchina da presa, per un progetto a cui, come per il precedente Rocky Balboa, non si può negare una forte impronta personale.
Lo scenario è la Thailandia, in un villaggio in cui l'ex berretto verde si è ritirato per una sorta di vita monastica. La quiete dell'esistenza di Rambo viene spezzata dall'incontro con un gruppo di missionari, che lo vogliono come guida per portare bibbie e medicinali alla vicina popolazione dei Karen, oppressa dal regime militare birmano. Seppur riluttante, Rambo accetta e guida i volontari fino al confine birmano: ma questi ultimi, appena giunti a destinazione, saranno rapiti dagli esponenti del regime. Così, l'ex berretto verde dovrà decidere se accettare la proposta di guidare un gruppo di mercenari nel salvataggio degli uomini.

Non è impresa facile, valutare criticamente un film come questo. C'è il forte rischio di cadere in due tentazioni opposte, entrambe fuorvianti per un corretto inquadramento dell'opera: quella di una spocchiosa, intellettualistica sottovalutazione (magari ideologicamente orientata), che non coglierebbe l'importante lavoro compiuto da Stallone sul personaggio, frutto di una rivisitazione tanto personale quanto sentita; e quella di un entusiasmo acritico, altrettanto astratto dalla realtà del prodotto, figlio di una generale tendenza critica alla rivalutazione di certe icone "popolari". John Rambo è film interessante quanto imperfetto, figlio della stessa tendenza al patetismo orgogliosamente anacronistico che aveva caratterizzato Rocky Balboa; e che sembra essere, in effetti, un po' la cifra stilistica del nuovo corso della carriera di Stallone. Una pellicola che presenta più zone d'ombra rispetto al "cugino" di un anno fa, espresse in una narrazione priva di equilibrio, mancante di un contesto (la Birmania e la guerra civile) sufficientemente definito e credibile. L'aderenza al genere (volutamente e pedissequamente perseguita, quasi a ribadire il concetto di "corpo estraneo" del film nel cinema americano attuale) finisce per nuocere al rispetto di alcune regole cinematografiche generali, che vogliono anche degli antagonisti credibili in grado di garantire, tra le altre cose, la catarsi finale. L'assenza di credibilità dei nemici (non scontata in un film del genere: qualcuno ricorda lo sceriffo interpretato da Brian Dennehy nel primo Rambo?) e un contesto politico-militare che il film dichiara fin dall'inizio di voler analizzare, ma che resta al contrario a livello di mero pretesto, nuocciono in parte all'efficacia stessa della narrazione.

A svettare su tutto è lui, Rambo, volto e corpo che mostrano senza pudore i segni del tempo, guerriero autoisolatosi da un mondo che non gli appartiene, temprato nella stessa materia dell'acciaio che batte con il maglio in una significativa scena del film. Frasi lapidarie, un volto se possibile ancora più duro rispetto al passato, un conflitto tra la natura da killer e la mente stanca di orrori e violenze che è prima di tutto interiore, pronto però a esplodere in momenti fisici di inusitata violenza. Più che una denuncia alla brutalità del regime birmano, più volte annunciata da Stallone, la graficità splatter delle scene d'azione (con un'insistenza quasi da exploitation su arti mozzati e corpi sventrati e deturpati) sembra essere così espressione del ritorno dirompente di un'icona fuori dal tempo su un palcoscenico che è ormai radicalmente e irrimediabilmente mutato: in un cinema improntato al politically correct, in cui la violenza estrema viene bandita o virata consapevolmente al grottesco, il ritorno del guerriero "alieno" di Stallone non poteva che esprimersi in questo modo. L'orrore impresso, durante il massacro finale, sul volto della missionaria Julie Benz (l'abbiamo vista in Dexter, curiosamente a fianco di un altro assassino costretto a scendere a patti con la sua natura), e il cedimento alla logica dell'assassinio del suo compagno pacifista (che ricorda quello di Charlie Sheen nel Platoon di Oliver Stone) la dicono lunga su una violenza che, pur mostrata come necessaria e ineliminabile, non può certo definirsi gratuita.

Stallone gestisce tutto questo con una regia nervosa e improntata a un crudo (iper)realismo, perfettamente adeguata allo scopo che il film vuole raggiungere e denotante un costante e innegabile miglioramento tecnico, d'altronde già evidente nel film precedente. Il finale del film, se messo a confronto con quello di Rocky Balboa, svela chiaramente il diverso atteggiamento dell'attore-regista nei confronti dei suoi due personaggi, e mostra senza ombra di dubbio quale dei due, nonostante e a dispetto delle apparenze, potrebbe a suo avviso giocare ancora un ruolo importante nel mondo e nel cinema attuali.
Così, nonostante i pur presenti difetti, non si può non guardare con simpatia a operazioni come questa di Stallone: il quale di nuovo, spudoratamente e con disarmante sincerità, mette a nudo se stesso e il suo rapporto col cinema e col mondo, incurante del tempo che inesorabilmente seppellisce miti ed icone. E non si può non provare curiosità per il suo prossimo progetto, che andrà a raccontare la vita di un altro outsider, quell'Edgar Allan Poe di cui tanto abbiamo amato gli scritti, e a cui il cinema potrebbe tributare, finalmente, il giusto riconoscimento. Attendiamo fiduciosi.

Movieplayer.it

3.0/5