Un film riuscito, Un giorno all'improvviso, che sa raccontare con realismo e sensibilità, immergendoli in un territorio sofferente ma vitale, una condizione, un sentimento di devozione e precarietà universali. Merito di un giovane regista con le idee chiare che ha avuto la tenacia di portare avanti un progetto complesso sfruttando al meglio le frecce al suo arco, tra cui spiccano i due interpreti principali: una sorprendente e magnifica Anna Foglietta e l'esordiente Giampiero De Concilio, poco più grande del personaggio che interpreta nel film.
In una bella mattinata autunnale, abbiamo incontrato Ciro D'Emilio e i suoi protagonisti e abbiamo chiesto loro di raccontarci qualcosa su questi personaggi e su questa esperienza. Per i nostri lettori la raccomandazione è di viverla attraverso il grande schermo. La distribuzione di Un giorno all'improvviso non sarà capillare, ma il film è nelle sale nelle grandi città, in primis Napoli e Roma, dal 29 novembre.
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Cacofonia dei luoghi e dell'anima
Guardando il film una delle cose che colpiscono è l'efficacia espressiva delle location, la pompa di benzina desolata, la terrazza sul Vesuvio, il campo. Come le avete trovate? Hanno un significato particolare per Ciro questi luoghi?
Ciro D'Emilio: Questo lo dobbiamo al grande lavoro della produzione e delle scenografie, quindi ad Antonella Di Martino e a tutti coloro che hanno collaborato alla ricerca delle location. Sono tutti luoghi reali, nulla è stato ricostruito, e per me erano fondamentali per raccontare i personaggi, in quanto spazi dell'anima. Ci sono dettagli che magari sfuggono a una prima visione, ad esempio nella casa piccola e claustrofobica di Miriam e Antonio ci sono cumuli di vestiti, segnali che rivelano l'incapacità di gestione delle cose che caratterizza Miriam. Antonella è stata bravissima a inserire elementi come piante rinsecchite, ammassi di vecchie riviste e abiti sullo, che raccontavano all'interno della location Miriam e lo spazio che Miriam fagocita, con la cameretta di Antonio che è l'unico spazio dedicato a lui, il rifugio dove va a respirare e a isolarsi per riprendersi nei momenti in cui entra in crisi.
Uno spazio che per me era fondamentale era anche il centro commerciale Plaza, lo spazio all'aperto, una delle location che abbiamo usato a Scafati, il paese dove sono cresciuto. Il centro commerciale è stato costruito quando io già vivevo a Roma, ed è incredibile perché visto dall'alto è un po' la sintesi di quei luoghi, frastagliati e disarmonici, dove trovi un campo e poi una fabbrica abbandonata e poi un centro commerciale e poi un complesso di scuole e poi una strada statale. Questo ibrido, questo confluire di anime e di emozioni diverse per me era una bellissima sintesi del racconto e dei personaggi che Antonio incontra sulla sua strada.
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Il figlio martire e la madre cannibale
Anna Foglietta in questo è davvero splendida ma anche difficile da guardare per quello che succede in scena: si sta male per questo ragazzo. Come inteprete e come madre come ti sei rapprtata con questa figura così rimossa, poco rappresentata, la madre sbagliata, la madre tabù?
Anna Foglietta: Proprio il fatto che non le si conferisca, socialmente e mediaticamente, il diritto ad esistere, mi ha dato la carica, la voglia, la passione per poter incarnare Miriam, restituendole tutte quelle sfumature emotive che non la legittimano, perché non c'è assoluzione o giustificazione, ma la raccontano. Il fatto è che il cinema non ha mai veramente affrontato il tema della maternità in questo modo, lo fa molto di più il teatro: Miriam è una Medea, un'eroina tragica, che per punire il proprio uomo se la prende col figlio. Ciononostante, non riesci davvero a odiarla perché tutto questo è filtrato e mediato da una patologia psichica che non cancella le sue colpe, ma evidenzia una corresponsabilità politica: è una donna abbandona al suo dolore da una società che non ha l'attenzione di aiutarla. C'è una chiusura nei confronti del dolore degli altri. Secondo me il film ha molti livelli di lettura, il personaggi di Miriam è uno di essi e ne racchiude altri dentro di sé.
Tra l'altro da romana, hai sfoderato un napoletano perfetto. Come ti sei preparata?
Mia madre è napoletana quindi il suo dialetto lo mastico da quando ero piccola, e poi ho un buon orecchio, mi è capitato spesso spesso di lavorare con dialetti e inflessioni. Poi quando Ciro sentiva una vocale troppo aperta o troppo chiusa mi correggeva. Alla fine è stato un grande lavoro di sinergia ma avere un regista napoletano mi ha certamente aiutato.
C'è questo momento del film che ha colpito un po' tutti, quando Antonio dice che non si è mai accorto di avere solo diciassette anni. Giampiero De Concilio non è molto più grande ma ha dimostrato una maturità incredibile sostenendo questo ruolo per tutto il film. Ma come li rivedi i tuoi diciassette anni attraverso quelli di Antonio?
Giampiero De Concilio: Quella che viene fuori nel film non è la mia maturità ma quella di Antonio, che è emersa grazie alla troupe che mi ha accompagnato, gli attori, il regista, i produttori, e l'acting cach Andrea Galbucci. Io ho diciannove anni, per quanto mi sforzi di essere maturo ho bisogno di fare un passo per volta. La maturità, la calma, la capacità di reagire di Antonio sono il frutto di un lavoro di squadra. Io sono stato preso per mano, e messo comodo, dovevo solamente eseguire, se ho fatto un buon lavoro il merito va riconosciuto a tutti, inclusi il tecnico delle luci, il runner, il montatore, l'aiuto regista e il musicista. Ecco, è merito loro!