Artista visivo capace di confezionare straordinarie sequenze, Schnabel non finge obiettività e da buon pittore dipinge un mosaico espressionista a piccolissimi tasselli, troppo soggettivo e personale per riuscire a convincere appieno.
In un momento in cui il grande cinema sembra essersi dimenticato del Medio Oriente ecco che dal cilindro dell'artista a tutto tondo Julian Schnabel spunta un fiore rosso, quello di Miral, la giovane protagonista della storia portata sul grande schermo dal cineasta americano come omaggio a tutte le donne nate e cresciute in Palestina e a tutti quelli che credono che una convivenza pacifica tra israeliani e palestinesi sia ancora possibile. Una storia di speranza raccontata con grande passione dal regista di origini ebraiche, come da lui stesso dichiarato, sia per portare sul grande schermo una storia d'amore e di grande coraggio ma anche per colmare le sue grosse lacune storico-sociologiche sull'argomento.
Così in un sol colpo il regista de Lo scafandro e la farfalla e Prima che sia notte (Gran Premio della Giuria e Coppa Volpi per Javier Bardem nel 2000 a Venezia) confeziona il suo quinto film e trasforma il romanzo autobiografico La strada dei fiori di Miral della giornalista Rula Jebreal (sua compagna di vita) in un film pieno di tante, troppe cose.
Non ha mai amato le cose semplici Schnabel, né i progetti in cui ci si espone poco, e Miral lo dimostra più di ogni altro suo film, risultando fazioso, pieno di troppe cose, nessuna delle quali sviscerata o analizzata a dovere, piuttosto superficiale negli snodi narrativi affidati ad immagini di repertorio e a salti nel tempo un tantino troppo lunghi. Paradossalmente la parte più coinvolgente del film è quella che parla degli anni precedenti la nascita di Miral, partendo dal 1949, anno in cui nasce lo stato di Israele, arrivando alla sua nascita in maniera lenta raccontando dapprima la storia della sua insegnante e mentore Hind Husseini, una donna realmente esistita, guida spirituale di migliaia di ragazzine e di donne, fondatrice del collegio per orfani Dar Al- Tifl ('La casa dei bambini') dove Miral crescerà dopo la morte della sua vera madre (personaggio interessante ma forse quello meno approfondito dal regista) poi della sua adolescenza fino al momento di lasciare per sempre la sua patria ed andare incontro al suo destino.
Sarebbe stato un film decisamente più riuscito se il cineasta avesse fatto una scelta più netta tra la storia personale di Miral e quella corale delle tre donne più importanti della sua vita, incentrando il film sulle loro storie di donne ed evitando di gettare nel calderone anche tutto il contorno storico-politico del conflitto dal 1949 fino ad oggi con estratti filmati riguardanti la Guerra dei sei giorni, l'Accordo di Pace di Camp David e quelli di Oslo, per non parlare delle immagini di repertorio sull'Intifada e sulle rappresaglie israeliane nei campi profughi palestinesi che compaiono spesso e volentieri durante il racconto.
La regia di Schnabel è altalenante, brillante quando si tratta di escogitare qualche interessante soggettiva o di usare la camera a mano, meno entusiasmante quando si lascia andare a superflui e didascalici riassunti che a poco servono ai fini della storia; a peggiorare il tutto gli evidenti drastici tagli apportati per motivi di durata (il personaggio di Vanessa Redgrave è assolutamente inutile, mentre quello di Willem Dafoe appare per qualche secondo per poi sparire incomprensibilmente dalla storia). Artista visivo capace di confezionare straordinarie sequenze, Schnabel non riesce in questa occasione ad amalgamare tutti gli ingredienti e a realizzare un film corale che abbia un senso compiuto. Non finge obiettività e da buon pittore dipinge un mosaico espressionista a piccolissimi tasselli, troppo soggettivo e personale per riuscire a convincere appieno. L'intento di intrecciare storie di donne attraverso le immagini è riuscito, è fallito invece il suo tentativo di coinvolgere emotivamente lo spettatore in una storia sì intensa e travagliata ma narrata in modo troppo poco uniforme. Chi guarda non riesce ad entrare del tutto nella storia perchè rimane impigliato nel tentativo di tenere il passo con lo scorrere dei decenni e di recuperare qui e là gli indizi temporali, storiografici e politici che il regista e la sceneggiatrice seminano qui e là.
Interessante la scelta di Schnabel di citare, per l'ansiogena scena del fallito attentato in una sala cinematografica di Gerusalemme, Repulsion di Roman Polanski, in particolare la scena in cui la Deneuve viene stuprata. La sequenza in bianco e nero della violenza carnale viene sagacemente connessa a quella della demolizione della casa di una famiglia palestinese da parte degli israeliani mentre i volti atterriti degli spettatori nel cinema vengono intelligentemente sovrapposti a quelli dei profughi nei campi. Schnabel ci mostra come le donne siano in grado di passare velocemente dal ruolo di vittime, sullo schermo e fuori, al ruolo di cecchini spietati assetati di vendetta con una bomba nella borsetta pronte a far esplodere qualunque cosa.
Nonostante la pesantezza della proiezione Miral riesce però a non annoiare e a regalare una piccola speranza per il futuro, perchè la pace in quei luoghi annientati da un inarrestabile conflitto, secondo il regista e secondo l'autrice del romanzo e della sceneggiatura, è ancora possibile.