Un cowboy in cerca di identità
Howard Spence, il cui nome ricorre non a caso ossessivamente, è un attore di film western di un certo successo, ma ormai ben avviato sul viale del tramonto. Come è suo solito fare, sparisce dal set di un film in lavorazione, ma stavolta cercando di far perdere completamente le sue tracce. Rifugiatosi a casa della madre che non vedeva da anni, in cerca di identità, viene a sapere da lei di avere un figlio, da qualche parte in Montana, e parte alla sua ricerca, perdendosi spesso tra il sesso, l'alcol e il gioco d'azzardo.
Non bussare alla mia porta è un film tecnicamente ineccepibile, che vanta una grande cura per la forma, come solito di Wenders, e un'ottima pertinenza ai fini del senso nella scelta delle inquadrature. Molto bello il modo di dipingere la provincia americana: squadrata, silenziosa, sempre simile a se stessa, ma piena di sogni di gloria.
Da un punto di vista narrativo, invece, il giudizio è meno positivo. Situazioni e personaggi sono divertenti, ma non ironici, piacevoli, ma non coinvolgenti. I personaggi, soprattutto, sono semplicisticamente surreali, ridotti un po' a macchiette, a ombre di se stessi. Sono quasi immutabili, fermi nei loro intenti, quasi a non voler tradire la propria immagine, per paura di non essere più molto divertenti. Con poca anima: un po' contraddittorio per un regista che nel suo dialogo-conferenza con Fuksas, dice di badare più al concetto che all'involucro. Osando di più, avrebbe fatto acquistare a quegli stessi personaggi (visto che l'idea di fondo non manca) una dimensione più umana e profonda.
Molto bravi i protagonisti Sam Shepard nel ruolo dell'attore-cowboy dal volto granitico e soprattutto Jessica Lange, che interpreta una ex fiamma di Spence, molto intensa ma mai sopra le righe.