Un brindisi alla morte
Gli individui non possono essere indifferenti alle proprie radici: le origini sono un canto di sirene primordiale che riconduce sempre al grembo che ha fatto nascere la vita. Fatih Akin, regista tedesco di genitori turchi, è persona sensibile al richiamo di quella terra lontana, eppure sua perché in essa è cresciuto, dove il nazionalismo consuma ingiustizie che i più deboli, ed idealisti, non riescono a contrastare e dalle quali sono costretti a scappare cercando rifugio altrove. Già ne La sposa turca, Orso d'oro al festival di Berlino nel 2003, Akin aveva raccontato della comunità turca in Germania, fornendoci una splendida rappresentazione delle sue contraddizioni e della vitalità che l'animava. Oggi il bisogno di tornare a casa è forte e in Ai confini del paradiso il regista accompagna i suoi sei personaggi, che si muovono incespicando tra Brema ed Amburgo, fino ad Istanbul, terra indecifrabile dove si strappano i sogni, ma nella quale può sbocciare nuova vita. Le storie si intrecciano rincorrendosi, in un continuo passaggio di testimone, i corpi s'incontrano mentre cercano asilo in terra straniera e il cerchio della vita racchiude le loro gesta tra thanatos e libido, tra amore e morte.
E' un groviglio di conflitti il quinto lungometraggio di Akin che mette a confronto diverse generazioni, differenti culture e modi di vivere, mentre sullo sfondo il demonio del fascismo cerca di prevalere e soffocare i rapporti interpersonali. Un padre e un figlio, due madri e due figlie, sei vite che nulla sembrano avere in comune le une con le altre, ma che il soffio del destino spingerà tutte nella stessa direzione, ai confini del paradiso, senza possibilità però di raggiungerlo nella vita terrena, dove regnano i soprusi, il dolore e l'incomprensione. I genitori non capiscono a fondo i propri figli, i quali si battono per aiutare il prossimo, scontrandosi con le miserie della quotidianità, con un presente deformato dal passato e dall'incapacità di imparare dagli errori già commessi. Akin parla di Germania e Turchia, descrive con efficacia le mani tese, ma non può che rendere conto dell'impossibilità di un rapporto sereno tra due esseri umani, dei problemi così grandi che non possono essere affrontati e vinti da soli e che sporcano l'incontro con l'altro, ne limitano la purezza. E sopra tutto c'è la morte, improvvisa, violenta, che lascia parole non dette, desideri inespressi, e non da più tempo per comprendersi ed accarezzarsi, e la pellicola ci ricorda in più di un'occasione che solo affrontando la morte si può tornare a guardare il mondo con occhi limpidi.
Fatih Akin si concede il lusso di una sceneggiatura perfetta (sul modello Guillermo Arriaga per intenderci) e per questa conquista un prezioso riconoscimento all'ultimo festival di Cannes, ma è proprio questa perfezione formale che ci fa storcere il naso, per quella sovrabbondanza un po' fasulla di coincidenze, di storie che corrono parallele e poi si incrociano, di corpi sempre prossimi che si sfiorano per poi cambiarsi automaticamente la vita. Spogliato però del suo discorso politico e dei meccanismi chirurgici di narrazione, ciò che convince del nuovo lavoro di Akin è la sua capacità di lavorare sulle sensazioni, di mettere in scena le complessità dei rapporti umani, di raccontare i conflitti generazionali, interculturali, tra i differenti sessi, con un'emozione asciutta che non travalica mai i confini del patetico. Il regista reinterpreta il road movie caricandolo di valenze simboliche, con l'occhio privilegiato della macchina da presa che cerca sempre le strade che i personaggi percorrono, dando grande spazio agli esterni, ma mostrandosi più ispirato quando si concentra sui corpi e sulle voci. E ancora una volta questo strano incontro turco-tedesco regala cinema intelligente che allarga i nostri orizzonti, anche se il doppiaggio ci nega il piacere dell'incontro tra diverse lingue.