Un atipico solipsismo
Il vecchio feudatario Hidetora Ichimonji, dopo aver spartito l'impero fra i suoi tre figli, assiste impotente al suo sfacelo per opera dei due fratelli maggiori, assetati di potere, impazzisce e va incontro a un destino crudele e ingrato in un mondo dove non c'è più speranza per un vecchio pazzo come lui.
Come è abbastanza facile intuire, quest'opera di Akira Kurosawa, uscita nel 1985, nominata a quattro Oscar ma vincitrice solo per i costumi, assorbe molto dalle tragedie di Shakespeare (la trama è praticamente quasi uguale a quella del Re Lear). Il maestro giapponese racconta quietamente e attraverso una progressione narrativa che dà corpo alla rassegnazione pietosa di chi sa già come andrà a finire, la vicenda che porterà alla autodistruzione del protagonista. La parola "ran" sta per caos, ed è proprio questa sensazione di estremo disordine che si insinua nella mente del vecchio Hidetora allorché viene ripudiato dai figli e costretto dagli eventi a fuggire, e a vagare. In questo suo peregrinare è doveroso riscontrare l'importanza dell'elemento catartico che conduce alla finale comprensione del tutto, come motivo centrale e livello di lettura più esterno di un film come complesso come quello del quale ci stiamo occupando.
Kurosawa dimostra in questa pellicola di avere una perfetta conoscenza dei mezzi cinematografici più efficaci per rendere al meglio il messaggio di estrema grandiosità del male e della perfidia dell'uomo che, lo stesso autore, ci vuole lanciare attraverso la caratterizzazione dei suoi personaggi, peraltro ottima. Per questo motivo alterna alcune scene estremamente statiche ad altre di "estasi del movimento", per arrivare finanche a "passaggi di silenzio" che non possono far altro che rendere ancora più onore alla già peculiare maestosità della messa in scena.
Davvero eccezionali le prove attoriali di tutti gli interpreti principali, che incarnano perfettamente i mille volti della disfatta umana di Hidetora Ichimonji, contro un mondo che sembra non volerlo più. Il tutto è ottimamente coadiuvato dall'apporto del sonoro, mai troppo invadente, ma sempre teso a sottolineare l'inclinazione drammatica delle sequenze senza soggiogarle ma anzi arricchendole di nuovi significati e possibilità di lettura. Del resto Kurosawa amava dire che il cinema non è solo immagine, ma il prodotto della moltiplicazione tra immagine e suono, e questa crediamo che sia la migliore dimostrazione del suo pensiero.
Uno dei più bei film storici degli anni Ottanta, da rivalutare, o da scoprire per chi ancora non conosce bene il cinema di un grande maestro come Akira Kurosawa.