Un ascensore per la multietnicità
A Piazza Vittorio, l'ombelico dell'Esquilino, storico quartiere di Roma in cui convivono comunità di più nazioni, sconfina oltre le mura di un vecchio condominio umbertino un microcosmo di culture diverse, un gruppo assortito di inquilini divisi per cultura ed etnia. Anziché imboccare la strada del confronto, uomini e donne, di età disparate e di estrazioni sociali dissimili, hanno scelto la via dello scontro, fatto di urla gridate nei pressi di un ascensore sempre affollato. Tra equivoci, pregiudizi reconditi e piccoli delitti consumati a ogni piano la loro quotidianità è un campo di battaglia aperto e incandescente in cui ognuno è coinvolto. Il rapporto già squilibrato tra loro viene un giorno guastato dalla morte del più scomodo, il Gladiatore, di cui sono tutti egualmente responsabili.
Il concetto di "scontro di civiltà", usato e abusato oggi nella dialettica monopolaristica delle attuali democrazie, trae la sua essenza da un libro, quello omonimo del politologo Samuel P. Huntington, che suggeriva poco più di dieci anni fa una rivalutazione delle diversità culturali nella convivenza pacifica tra gli stati. La formula, auspicata ma compiuta solo parzialmente a ridosso di un presente dominato dall'illusione dell'inclusione, va in una direzione precisa, quella di una riedificazione della civiltà come di un mosaico fatto di tessere differenti, un progetto ambizioso e necessario. Anche Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio è tratto da un libro, il romanzo omonimo dello scrittore Amara Lakhous, ma localizza il problema del melting pot mancato o di difficile realizzazione in un vivace e fervido condominio del quartiere più multietnico nella capitale, l'Esquilino. Le storie dei suoi protagonisti, cittadini del Soho italiano, piazza Vittorio, s'intrecciano per formare una matassa aggrovigliata di corpi, di mentalità e di comportamenti molteplici che restano distinti nella loro scomposta aggregazione. La coraggiosa regista Isotta Toso, che esordisce con un'opera impegnata e ambiziosa, porta sapientemente sullo schermo gli sviluppi che Lakhous ha consegnato al lettore in chiave corale, attraverso le testimonianze di personaggi che lasciano emergere le singole storie come frammenti di una quotidianità dissaldata. Manipolare una materia dal cuore nero come il crogiolo razziale e dal tessuto disomogeneo non dev'essere stata un'impresa facile, pur provenendo da un'esperienza di trasposizione simile con Notturno Bus, di cui era stata aiuto alla regia di Davide Marengo, tuttavia, insieme alla sceneggiatrice Maura Vespini, l'opera si presenta come un insieme ben organizzato di raccordi narrativi in cui spanano però i dialoghi svolazzanti e non troppo convincenti. Si fa fatica a schierarsi con l'uno o l'altro protagonista perché ognuno è viziato da un peccato discutibile e insieme dotato di un notevole calore umano: Marco (un inappuntabile Daniele Liotti) è una sanguisuga da tribunale mancata eppure si chiude a riccio nella comunicazione con gli altri, suo fratello, Lorenzo "il Gladiatore", è un violento delinquentucolo di strada che poi rischia la vita per il suo amato cane, Nurit (l'ozpetekiana Serra Yilmaz) è un'iraniana che paga il suo reclamo per l'asilo politico mentre disprezza gli usi e la cucina italiani, Amedeo si schiera dalla parte dei deboli, ma nasconde a tutti la sua vera identità, Sandro (il simpatico Francesco Pannofino) ha un bar, conduce una vita apparentemente onesta ma gioca sporco con gli extracomunitari sans papier. I personaggi principali non sono mai disegnati con contorni netti e questo permette al pubblico di avvertire costantemente le tensioni che si accumulano pericolose e incendiarie tra loro: come nel gioco del Cluedo chiunque può aver commesso l'omicidio ovunque, in qualunque modo e per una motivazione qualsiasi. Se Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio riesce a parcellizzare strategicamente i vari intrecci e a congiungerli nel segno di una compatta continuità narrativa, non si può dire lo stesso per le immagini, che si alternano confuse tra un realismo toccante e un surrealismo visivo che purtroppo stona con il resto e indebolisce l'impianto filmico. La densità degli scontri, che rappresenta il collante stesso delle storie, emerge con difficoltà dalle immagini, ma è enfatizzata da un felice contrappunto musicale grazie alla formidabile colonna sonora del bravo duo Gabriele Coen-Mario Rivera, che aveva già impreziosito il recente Matrimoni e altri disastri. Discreta la prova attoriale di gran parte del cast, malgrado risultino poco convincenti con un'interpretazione sottotono e facilmente obliabile Kasia Smutniak e Milena Vukotic, e sia fastidioso alle orecchie e alla vista il doppiaggio storpiato del bravo Ahmed Hafiene. Gradevole rivelazione invece quella del sorprendente Marco Rossetti, che interpreta il suo Caino con grande trasporto e con ghigni degni dei più incarogniti cattivi del cinema giovane nostrano.