Sì, l'amore fa male. Come un grande avvoltoio plana sopra di noi, si immobilizza e ci minaccia... ma la minaccia può essere anche promessa di gioia.
Le battute scambiate ogni sera, sul palcoscenico del teatro Montmartre, dagli attori Bernard Granger e Marion Steiner, incentrate sulle antinomie dell'amour fou ("una gioia e una sofferenza"), non vengono pronunciate per la prima volta ne L'ultimo metrò. Le stesse frasi appartengono infatti a un'altra pellicola di François Truffaut, La sirène du Mississipi, melodramma a tinte noir del 1969, distribuito in Italia come La mia droga si chiama Julie, e il loro riutilizzo riflette in qualche modo la natura 'giocosa', di divertito artificio, che trapela dal diciannovesimo lungometraggio del grande regista francese: un film sulla finzione come magistra vitae, una storia di attori impegnati a recitare non solo in scena, ma in ogni altro momento della propria giornata.
L'ultimo metrò rappresenta pertanto quasi una summa del cinema truffautiano, o perlomeno di molti degli elementi da sempre cari all'ex padrino della Nouvelle Vague. Pur senza possedere la stessa matrice autobiografica del ciclo di Antoine Doinel, è un film in cui François Truffaut fa confluire ricordi d'infanzia (la Francia sotto l'occupazione tedesca durante la Seconda Guerra Mondiale), aspetti-chiave della sua opera, ma soprattutto l'immensa passione per lo spettacolo: il teatro, la creatività, l'immaginazione sono quanto di più prezioso possa esistere, la nostra primaria raison d'être, e L'ultimo metrò non fa altro che ribadirlo. Non è un caso, del resto, che la frase più famosa del regista rimanga: "Tre film al giorno, tre libri alla settimana, dei dischi di grande musica basteranno a fare la mia felicità fino alla morte".
Catherine Deneuve e Gérard Depardieu nella Francia del collaborazionismo
Scritto da François Truffaut con la sua fedelissima collaboratrice Suzanne Schiffman e il drammaturgo Jean-Claude Grumberg, L'ultimo metrò viene distribuito in patria il 17 settembre 1980. La presenza dei due massimi divi del cinema francese, Catherine Deneuve e Gérard Depardieu, contribuisce ad attirare in massa il pubblico: il film si dimostrerà infatti il secondo maggior successo commerciale nella carriera di Truffaut (dopo I 400 colpi), con quasi tre milioni e mezzo di spettatori solo sul territorio nazionale (e un milione negli Stati Uniti). Alla sesta edizione dei César, L'ultimo metrò stabilisce un record tuttora imbattuto aggiudicandosi un totale di dieci statuette, tra cui miglior film, regia, attore, attrice e sceneggiatura, e poche settimane più tardi otterrà anche la nomination all'Oscar come miglior film straniero.
Catherine Deneuve, che torna a farsi dirigere da Truffaut undici anni dopo La mia droga si chiama Julie, è Marion Steiner, attrice del grande schermo che in seguito all'ingresso dei tedeschi in Francia ha 'ereditato' la gestione del teatro Montmartre dal marito Lucas (Heinz Bennent), perseguitato in quanto ebreo; Lucas, tuttavia, è nascosto nei sotterranei del teatro, mentre sua moglie si adopera per trovare il modo di fargli passare il confine con la Spagna. Gérard Depardieu ha invece il ruolo di Bernard Granger, ingaggiato da Marion come suo co-protagonista per il nuovo spettacolo della compagnia, La scomparsa; ma oltre all'attività in palcoscenico, Bernard ha a cuore le sorti della Francia e parteggia per la Resistenza, in un difficile tentativo di coniugare l'amore per il teatro con quello per la libertà.
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Il teatro in tempo di guerra
Ma in realtà, sembra dirci Truffaut, non esiste alcuna contraddizione fra queste due vocazioni. Al contrario, il teatro stesso costituisce una forma di resistenza: un baluardo da opporre alla barbarie della guerra e alla meschinità del collaborazionismo, ma anche lo strumento salvifico con cui elevare il proprio spirito così come quello degli spettatori, la dimensione in cui esprimere appieno se stessi e il desiderio di amare ed essere amati. E non è certo un concetto nuovo, nella filmografia di Truffaut: ne I 400 colpi si trattava di un'altra forma d'arte, la letteratura (l'altarino del piccolo Antoine a Honoré de Balzac), e sempre i libri erano il patrimonio proibito da preservare a ogni costo in Fahrenheit 451; mentre in Effetto notte, autentico ritratto dell'artista al lavoro, il medesimo trasporto era riservato al cinema.
Ecco, L'ultimo metrò potrebbe essere accostato ad Effetto notte in un ideale dittico sul mondo dello spettacolo (e Truffaut avrebbe voluto girare pure un terzo capitolo, L'agence magique, dedicato ai music hall): se il capolavoro del 1973 raccontava la quotidianità del set e l'intreccio di sentimenti e di drammi davanti e dietro la macchina da presa, L'ultimo metrò adotta un approccio analogo soffermandosi sulla routine del mestiere del teatro e sull'inevitabile corto circuito fra attori e personaggi. E la profonda empatia del regista si rivela mediante l'attenzione ai dettagli, alle sfumature, ai piccoli gesti: gli scambi ironici fra i membri della compagnia; la necessità di coniugare le ragioni dell'arte e quelle economiche; l'amicizia, le tensioni e gli effimeri flirt che si consumano dietro le quinte; l'ordinarietà di cui, in fondo, si compone la Storia.
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François Truffaut e l'amore per l'arte
Mai come in questo caso, infatti, François Truffaut si confronta con il passato della Francia e la sua "cattiva coscienza": l'antisemitismo e il collaborazionismo trovano la loro personificazione nella figura del viscido critico Daxiat (Jean-Louis Richard), che sull'appoggio al regime di Vichy ha costruito la propria fortuna, mentre l'atmosfera di sospetto e di paranoia in cui è calato il film, comprese certe pennellate da spy thriller hitchcockiano, rimandano al senso di precarietà e di incertezza di un paese sottoposto al giogo dell'occupazione e della dittatura. E sebbene la narrazione non perda mai di vista le vite private dei personaggi, Truffaut riesce comunque a restituirci il quadro d'insieme con incredibile vividezza, a partire dalle suggestioni del titolo (la partenza dell'ultima metropolitana sanciva l'orario del coprifuoco e la fine degli spettacoli teatrali).
Nella sua fusione fra dramma e leggerezza, fra cronaca storica e romanticismo, risiede dunque il nucleo della grazia ineffabile de L'ultimo metrò: una pellicola in cui, come da consuetudine nel cinema di Truffaut, si respira un affetto sconfinato per luoghi e personaggi, un bisogno di compiutezza che si realizza proprio sul palcoscenico. E quella 'coda' finale, in una Parigi liberata dai partigiani e dalle truppe alleate, non potrebbe essere più emblematica: una nuova mise en abîme in cui il legame fra i protagonisti si rinsalda davanti agli occhi del pubblico, suggellato dagli applausi, da quelle mani che si stringono l'una all'altra e dalla luce nello sguardo della Marion di Catherine Deneuve. L'ennesima, appassionata dichiarazione d'amore di Truffaut per l'arte e per il cinema.
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