Nel saggio di Cecilia D'Elia e Giorgia Serughetti intitolato Libere Tutte (edito da Minimum Fax) le autrici scrivono: "Parliamo di donne, ma sappiamo che non stiamo parlando di un collettivo omogeneo, bensì di un universo plurale". Ed è proprio la pluralità femminile a vincere gli Emmy 2017, ratifica ufficiale di un anno che verrà ricordato per aver rappresentato in maniera efficace le molte sfaccettature di un movimento che ha trovato terreno fertile nella serialità.
Leggi anche: Emmy Award 2017: la notte magica di The Handmaid's Tale e Big Little Lies
Rosso e bianco
The Handmaid's Tale, la serie tv tratta dal romanzo della canadese Margaret Atwood Il racconto dell'Ancella (Ponte alle Grazie) è stata premiata con sette statuette tra cui miglior serie drammatica. È stata la testa d'ariete di una manifestazione apertamente politicizzata - nel bene e nel male - che ha portato sul podio lo show più politicizzato dell'anno. La storia di Offred a Gilead (la vedremo in Italia su TIMvision dal 26 settembre) è stata scritta e girata all'ombra di Donald Trump quando questi non era ancora insediato alla Casa Bianca; ma la sua allegoria potente è echeggiata nelle coscienze come sanno fare i prodotti giusti al momento giusto, gli stessi in grado di restituire a chiunque guardi il riflesso dello spirito del tempo. Indigesto e letterario, quasi agli antipodi dei dettami dell'era dell'entertainment casalingo, The Handmaid's Tale diventa il simbolo di una televisione impegnata. Sarà ricordato come un'operazione culturale totale in grado di dissolvere i confini tra letteratura, televisione e attualità grazie alla protezione dello scudo della distopia.
Leggi anche: The Handmaid's Tale: le donne in rosso nella tirannia di domani
Eppure se è vero che The Handmaid's Tale ha funzionato da manifesto, da dichiarazione di intenti inconsapevole, è anche vero che il cavallo di Troia del 2017 è stato Big Little Lies - Piccole grandi bugie. Che lo show dall'apparenza più conservatrice - tratto dal romanzo omonimo di Liane Moriarty e adattato per la tv dal bravo David E. Kelley per la regia di Jean-Marc Vallée - abbia meritato i suoi riconoscimenti grazie all'attenzione nei confronti della violenza domestica è fatto noto; più sottile è, però, che per rappresentare l'abuso siano state scelte le spiagge bianche di Monterey e, nello specifico, il paradiso casalingo di una Nicole Kidman celestiale, in grado di contenere l'abisso nelle tasche dei cappotti lussuosi e tra le pieghe delle lenzuola di seta immacolata. Così, tra le accuse facili di scarsa inclusività, la hit Hbo ha trascinato sotto i riflettori un problema scomodo che non conosce classi sociali né gradi di istruzione.
Leggi anche:
-
Big Little Lies: il nuovo gioiello HBO racconta quello che le donne non perdonano
-
Big Little Lies, il finale: dall'orrore alla guarigione, un cammino da percorrere insieme
Grigio e nero
Anche se, contro ogni previsione, non ha portato nulla a casa nella notte degli Emmy, la prima stagione della serie antologica Feud dedicata a Bette Davis e Joan Crawford è uno dei traguardi dell'anno per quel che concerne la messa in scena dei meccanismi della competizione femminile: un altro tema complicato da rappresentare, un campo minato che deve aver richiesto grande destrezza per essere mappato data la facilità con cui si sarebbe potuto commettere un passo falso agendo, paradossalmente, a favore di quanto si voleva combattere. Il meta-ritratto, vivido grazie alla bravura di Susan Sarandon e Jessica Lange, di due attrici masticate e sputate senza pietà da Hollywood - a opera di Ryan Murphy, Jaffe Cohen e Michael Zam - offre soprattutto uno spaccato delle dinamiche di potere (maschili) nel quale persino due stelle assolute possono restare invischiate. Lo show riflette sul grande tabù dell'invecchiamento cui consegue la perdita della bellezza che, in un sistema concentrato sul mantenimento dello status quo di "fabbrica dei sogni", soggioga la natura allo stesso artificio che trasforma la solidarietà con l'altra e con il proprio corpo in odio viscerale.
Leggi anche: Feud: Bette and Joan, un finale struggente per una delle migliori serie dell'anno
Sempre corpo e, letteralmente, visceralità sono anche i soggetti privilegiati della rappresentazione di un'antieroina fondamentale per quanto non titolare, come negli altri casi: la Laura Moon di American Gods. La moglie di Shadow si trasforma presto in molto più di una semplice comprimaria per diventare il baricentro di una serie visionaria e decostruita, che cuce nel petto martoriato di Emily Browning il suo stesso cuore. Curioso considerato che Moon è uno zombie a tutti gli effetti e interessante nella misura in cui questa donna respingente (si potrebbe definire afflitta da un disturbo narcisistico piuttosto grave) diviene viva, empatica e capace di sentimenti soltanto dopo la morte. Un'inversione nella quale non solo la concezione poco convenzionale di amore romantico di Neil Gaiman, ma anche la perversione appassionata del creatore della serie Bryan Fuller, trovano terreno ideale per sbocciare.
Leggi anche:
-
American Gods: la serie è una festa per gli occhi, così come il libro di Gaiman lo è per la mente
-
American Gods e la mitologia: tutti i riferimenti nella serie
Laminato e arcobaleno
Uno dei premi di maggior peso (di nuovo, politico) della serata degli Emmy è andato a Lena Waithe, co-scrittrice dell'episodio della seconda stagione di Master of None chiamato Il Ringraziamento. È stata la prima donna afroamericana a ottenere questo tipo di riconoscimento per la scrittura in una commedia. Della storia per cui ha vinto ha detto: "È nera. È femmina. È veramente gay". Ciò che funziona nella puntata dello show di Aziz Ansari è infatti la sua identità unica, l'autenticità nel raccontare una galassia del composito cielo femminile senza apparenti pretese di universalità.
Leggi anche: Master of None 2: Aziz Ansari continua a stupire, far divertire e riflettere... anche dall'Italia
Così, mentre uno show di rottura come Broad City continua indefesso a mostrare le avventure nonsense di due amiche sballone che, se possono, evitano di mettere le mutande sotto i pantaloni; mentre Pamela Adlon si appresta a portare il suo Better Things nell'empireo delle comedy di successo con una seconda stagione e, soprattutto, mentre si aspetta che un asso come la disfunzionalissima Fleabag di Phoebe Waller-Bridge torni a scoppiare in lacrime nei nostri schermi casalinghi, si assiste a un'esplosione di colore.
Non è un caso che GLOW, la serie laminata, metalizzata, fluo, fosforescente di Liz Flahive e Carly Mensch - prodotta dalla grande madre della serialità femminile Jenji Kohan - faccia da cornice per un affresco tutt'altro che monocromatico, nel quale possono convivere istanze differenti, storie di crescita e maturazione differenti, desideri differenti. Al di là della sua vocazione giocosa e sovversiva, infatti, lo show Netflix nasconde una vicenda di salvezza e determinazione al cui centro sono affermazione e sopravvivenza; una saga sui generis dove il ring diventa una metafora astuta per raccontare la lotta quotidiana al centro di un insieme di ingranaggi schiaccianti costruito da altri, per altri.
Leggi anche: GLOW: l'ironia al femminile approda sul ring grazie al nuovo cult di Netflix
Non femminismo, ma femminismi
Iniziamo, dunque, a tirare le somme di un anno memorabile. Che si tratti della prigione a forma di città di Handmaid's Tale o si racconti di una ragazza alle prese con un coming out complicato nelle pieghe di New York City, non si deve commettere l'errore di pensare che esista un'unica maniera corretta di dare spazio ai diritti civili delle donne. Storcere il naso davanti allo stile di vita vacuo e lussuoso di Madeleine Martha Mackenzie in Big Little Lies o considerare Feud: Bette and Joan come un esercizio di stile vuol dire ignorare le sfaccettature di un vero e proprio - ripetiamolo - movimento televisivo che consiste, nelle sue espressioni evolute, nella messa in scena della pluralità. Non esiste una maniera sbagliata di vivere la libertà di sentirsi padrona del proprio corpo e delle proprie decisioni, di come ci si veste, di quali siano i propri valori, di come questi vengano portati avanti nella vita di tutti i giorni tra i vicoli di Londra o in una palestra scalcinata. Gli Emmy si limitano a prendere atto di un cambiamento macroscopico che più progredisce, più mina le basi di una definizione di femminismo statica o univoca, gridata e "pura" lì dove questa purezza minaccia di divenire una nuova gabbia.