Sembra un giorno come tutti gli altri, ma per il giovane poliziotto Jake Hoyt non lo sarà affatto. Il sole sorge, la sveglia suona e scopriamo i suoi occhi pesanti, stracolmi di sogni, speranze, bontà. Talmente puri da specchiarsi a meraviglia in quelli di sua figlia, appena nata. Il buon Hoyt bacia sua moglie, lucida il suo distintivo, cura e protegge tutto quello che ha di prezioso, come se in cuor suo sapesse che il suo candido mondo sta per essere macchiato per sempre, sporcato da una lurida giornata di lavoro. Il breve ma intenso viaggio di Training Day parte e finisce in casa Hoyt; in mezzo c'è un giorno che vale anni interi, quasi 24 ore impregnate di lacrime, sudore e sangue, utili ad una lezione di vita amara quanto necessaria. Perché sulla strada di Jake, nella vita di Jake, sta per irrompere Alonzo Harris. Esperto, impermeabile e rispettato agente della narcotici, Alonzo ospita il pivello Hoyt nella sua macchina nera, quasi fosse il destriero scuro di un cavaliere pieno di macchie; qui lo forma, lo forgia, gli fa da esempio. Ma cosa c'è da imparare da un uomo che è un tutt'uno con il male? Che mentore è chi ha scelto di mimetizzarsi con il crimine? In mezzo a tanto fango e tanta amarezza, la lezione c'è eccome, è complessa e colorata di grigio. Bianco e nero, purezza e marcio, lealtà e corruzione. In Training Day gli opposti sono evidenti come difficilmente sarà in futuro.
Infatti, l'opera terza di Antoine Fuqua esce il 16 novembre 2001 (il 5 ottobre negli States), due mesi dopo quella tragedia che avrebbe cambiato per sempre anche la rappresentazione del male. Training Day, invece, è ancora figlio del mondo pre-11 settembre, quando ancora si poteva ben distinguere il buono dal malefico, riconoscere i paladini per distinguerli dai cattivi. Succede in un film teso, schietto e spietato, l'ennesima parabola eroica del cinema di Fuqua. Prima dei condottieri (King Arthur), dei vendicatori (The Equalizer - Il vendicatore) e dei sacrificabili (I magnifici 7) è stato il tempo di Jake e Alonzo: l'eroe e l'antieroe, l'allievo e il maestro alle prese con una lezione di cinema che ripercorriamo nei suoi 5 momenti fondamentali. Come una giornata che scorre, passa, ma rimane impressa. Come farà negli occhi meno puri, ma più consapevoli dell'agente Hoyt.
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1. L'alba - Luci e ombre su Los Angeles
"Hemingway una volta ha scritto: il mondo è un bel posto e vale la pena di lottare per esso. Condivido la seconda parte". La frase amara che chiude Seven potrebbe anche essere l'ultimo pensiero di Hoyt una volta tornato a casa, alla fine del film. Ma oltre alla disillusione c'è un altro, curioso legame tra il film di Fuqua e quello di David Fincher: il legame stretto con la città, un contesto vivo e pulsante, che si eleva quasi a co-protagonista della storia e costringe i personaggi a viverne ogni contraddizione. Se Seven è ambientato in una città senza nome, Training Day trasuda Los Angeles da tutti i pori. Il suo è un contesto urbano difficile, dove la criminalità dilaga dentro quartieri popolari fatiscenti, tra i vicoli abitati da drogati e stupratori. Un affresco sociale balordo nel quale Fuqua si muova con maestria (lui e lo sceneggiatore David Ayer sono cresciuti tra le gang di quartiere), passando dall'asfalto ai divani degli interni, dai marciapiedi alle casse dei negozi. Esterni e interni danno vita ad una Los Angeles poco assolata e piena di ombre domestiche che, come suggerisce Alonzo in auto, abbassando i finestrini, va ascoltata, respirata, vissuta.
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La strada è tutto un fatto di lacrime e sorrisi. Sì, devi tenere sotto controllo le tue lacrime e i tuoi sorrisi, perché è tutto quello che hai e nessuno te lo può portare via
2. Il mattino - Inquinare lo sguardo di Hoyt
Los Angeles, dicevamo. Non è il caso di farsi ingannare dal nome, perché gli angeli non abitano più qui. Questa città non è un posto per giovani sognatori, eppure Hoyt si permette il lusso di sognare ancora, di credere che la giustizia sia applicabile, che le persone meritino fiducia. Non si può parlare di Training Day senza provare ad analizzare entrambe le anime a cui è dedicato, caratteri opposti e per questo attratti l'uno dall'altro. Da una parte l'esordiente affascinato dall'esperienza, dall'altra il veterano memore di un'innocenza ormai perduta. In questa altalena sospesa tra il bene e il male, Ethan Hawke è il volto perfetto per incarnare la purezza ingenua di un giovane idealista. Lui che è stato l'allievo per eccellenza ne L'attimo fuggente, ritorna nei panni del discepolo, inizialmente timido, poi sorpreso, poi spaventato e infine deciso a reagire dinanzi all'insostenibile delirio del collega Alonzo. Questa graduale scalata emotiva è ben visibile negli occhi di Hawke, gradino dopo gradino, dall'imbarazzo allo sdegno, dall'amarezza al senso del dovere; è tutto contenuto nel volto buono di giovane che prima credeva soltanto nel bene, ma ora ha dovuto praticarlo, anteporlo alle tentazioni, alle vie facili e affascinanti della corruzione. Per questo Hoyt ci appare davvero buono soltanto dopo aver affrontato il suo primo inferno.
3. Il tramonto - King Kong vive sulle sue spalle: l'onnipotente Alonzo
Se il carisma fosse una persona, sarebbe Denzel Washington in Training Day. Camminata decisa (rigorosamente lontana da qualsiasi striscia pedonale), look da duro, un'impugnatura di pistola da brutto ceffo del Far West, espressione crucciata ma capace di fulminei sprazzi di corrosiva ironia. Lui che gioca d'anticipo e ferisce prima di essere colpito, come quando affibbia a Hoyt il soprannome "il mio negro". Il suo Alonzo è un personaggio complesso, non un semplice malefico fine a se stesso, ma un uomo che ha scelto di essere quello che è dopo aver vagliato ogni alternativa, che ha compreso la natura del suo mondo e ha deciso di sposarla in pieno. Così, secondo il suo radicato credo, i poliziotti per combattere il male devono conoscerlo dal suo interno, rimanerne invischiati per caprine ogni meccanismo. Pragmatico, prevaricatore e abile con l'arte oratoria, Alonzo è soprattutto un grande manipolatore. Da buon osservatore qual è, l'agente Harris scorge il punto debole di chi gli sta difronte per insinuarsi proprio lì, proponendo accordi, scambi e ricatti. Lo stesso accade con Hoyt. Alonzo, navigato uomo di mondo, disilluso lupo da marciapiede, capisce immediatamente che al suo fianco c'è un essere puro, magari facile da influenzare o affascinare con la sua condotta da re di Los Angeles. Ma così non sarà perché il senso etico del ragazzo si dimostra inamovibile. Però, alla fine, quando non solo Hoyte ma tutta la comunità gli sfugge di mano, per una volta lontana dal suo perenne controllo, Alonzo smarrisce la sua storica sicurezza per esplodere in un delirio di nefasta onnipotenza.
La morte è certa. La vita no
4. Il crepuscolo - Il peso di una buona sceneggiatura
Se quella di Training Day è una lezione schietta, capace di arrivare dritta in pancia con immediatezza, è soprattutto per merito dei dialoghi. David Ayer, prima di arrivare a Suicide Squad, continuerà a parlare di oscure figure di legge anche da regista (Harsh Times - I giorni dell'odio, La notte non aspetta, End of Watch - Tolleranza zero), ma qui riesce a scrivere un riuscito film on the road basato sulla forza della parola. Attraverso due registri espressivi opposti, Ayer riesce subito a manifestare il carattere di Alonzo e Hoyte, più colorito, volgare e spinto il primo, più formale, timido e impostato il secondo. E anche quando si fa ricorso ad un linguaggio allegorico, con riferimento al mondo animale ("per proteggere la pecora, bisogna ammazzare il lupo. E solo un lupo può uccidere un lupo") a quello ludico ("si gioca a scacchi, non a dama") la sceneggiatura non perde né smalto, né incisività.
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5. La notte - Una morale pragmatica
Per tutto il film si respira aria malsana, guardiamo sangue, fumiamo droga, assistiamo a soprusi e omicidi. Tutto sembra portare lo spettatore ad empatizzare con Jake e ad abbracciare la sua crescente delusione. Almeno sino alla svolta finale, dove l'agente del male viene punito e l'eroe ritorna a casa sano e salvo. Eppure guardare il finale di Training Day in questo modo non gli rende giustizia, significa considerarlo buonista e semplicistico. Così non è. A Fuqua non interessa soltanto raccontare di quando l'allievo del bene superò il maestro del male, ma descrivere una morale molto meno retorica. Training Day celebra il bene pragmatico, non quello degli ideali, non quello parlato, ma praticato, scelto, spesso con fatica, scegliendo la via più difficile. Non a caso il fatto che Hoyt scelga di salvare una ragazza da uno stupro, sarà poi decisivo per la sua salvezza. E lo stesso accade poco più tardi quando persino il figlio di Alonzo preferirà ascoltare uno sconosciuto al posto del padre. Come se a quel bambino fosse bastato addormentarsi con Hoyte sul divano per capire la pasta di quell'uomo e da che parte stanno i buoni. Tra anime innocenti ci si capisce, e insieme si possono persino battere i cattivi.