Non saremo i primi a dirlo, ma è bene sottolineare il concetto: Toro Scatenato di Martin Scorsese è, oggettivamente, uno dei film più belli della storia del cinema. Perché, e lo scriviamo con un pizzico di presunzione giornalistica, alcune pellicole sono indiscutibili e inattaccabili. Non c'è gusto che tenga, né parere personale che possa sciogliere la marmorea meraviglia di un'opera come Raging Bull. Visto che ci siamo, aggiungiamo un'altra postilla, su cui ramificheremo la nostra re-visione: Toro Scatenato non è un film sul pugilato. O almeno, non è solo il più grande film sul pugilato. È, invece e soprattutto, la rappresentazione scientifica della rabbia, schizofrenica ed esasperata. Una rabbia estrapolata dai muscoli e dal sangue, che conduce irrimediabilmente alla devastazione.
Ispirato all'autobiografia di Jake LaMotta, e scritto da Paul Schrader e Mardik Martin pensando già al felpato bianco e nero della fotografia di Michael Chapman, Toro Scatenato mette in scena l'auto-implosione di un uomo, i suoi ardenti tormenti, la sua intrisa difficoltà nel relazionarsi tanto con gli altri quanto con sé stesso. Il profilo drammatico di un uomo medievale, iracondo e ossessionato, possessivo e geloso. Dal gancio sinistro potente ma dallo spirito gracile, quasi spezzato. Per assurdo, l'ardente epopea di LaMotta, forgiato dalla violenza del Bronx degli anni Trenta, e dalla selvaggia lotta per la sopravvivenza in un contesto estremo (il riformatorio, la fame, il padre siciliano che scommetteva sulle sue risse), sarà per Scorsese una sorta di processo inverso: Toro Scatenato è stata la rivincita del regista.
Raging Bull, la salvezza di Scorsese
Cronologicamente parlando, Scorsese fin da subito (e tutt'ora) ha provato a rappresentare le ombre più oscure di New York City: Taxi Driver fu un tripudio, al contrario di New York, New York, che invece steccò clamorosamente. Un tonfo che segnò profondamente Scorsese. Il regista, come Jake LaMotta, cadde in una profonda depressione, accentuata dagli effetti sempre più stordenti della droga. Il pensiero espresso dai critici e dai produttori incartapecoriti mal tolleravano le tematiche elaborate dalla New Hollywood e mal tolleravano la libertà degli autori (di cui Scorsese è manifesto), sfruttando la depressione del regista in modo pregiudizievole: il cinema aveva bisogno delle regole ferree indotte dalle Major, che avrebbero dovuto avere l'ultima parola sulla versione finale, in quanto i registi non avevano, secondo le Major, il pieno controllo di sé.
Ciononostante, Toro Scatenato, considerabile come l'ultimo capitolo della New Hollywood, ha probabilmente salvato la vita di Scorsese. L'idea gliel'ha suggerì proprio l'amico Robert De Niro, colpito dalla biografia del pugile italoamericano, indossando poi i panni di LaMotta in quella che possiamo considerare come una delle più istintive ed esplosive interpretazioni della storia. "Bob voleva fare il film", dichiarò Scorsese: "Io non capivo niente di pugilato. Capivo solo che fosse una partita a scacchi fisica. Ci vuole intelligenza, ma la partita la giochi sul corpo [...]. Ma avevo un'idea anche minima delle motivazioni che spingono un pugile a lottare. E ho capito perché De Niro voleva interpretare LaMotta". La sceneggiatura, dalla doppia tonalità, venne stilata prima da Mardik Martin e poi da Schrader, mentre il montaggio - chiave dell'intero film - fu realizzato meticolosamente da Thelma Schoonmaker (di notte, soprattutto), che non abbandonò mai più Scorsese nello studio di montaggio.
Toro Scatenato di Martin Scorsese per la prima volta al cinema in 4k dall'8 al 10 maggio
Jake LaMotta, un uomo fuori posto e fuori tempo
Un parallelo interessante, quello tra la distruzione di LaMotta e la successiva salvezza di Martin Scorsese. Pur non essendo stato immediatamente un successo, Racing Bull ha impresso un netto cambio di prospettive, intanto che il cinema stava virando verso la fantascienza (benvenuti negli anni Ottanta!) e verso quella poi definita come la decade dei cult. Un parallelo, e poi ancora un altro: la storia di Jake LaMotta, dal trionfo alla dannazione, è il lascito di un'epoca estinta, squarciata dalla disillusione e dagli eroi spregevoli, di cui il boxeur del Bronx diventa l'emblema prepotente e furente.
Un personaggio nel personaggio, disegnato da Scorsese senza risparmiarlo dalle marcate storture della sua personale irregolarità (la sequenza della bistecca troppo cotta è la sintesi). Oggi non ci sarebbe mai posto per uno come Jake: violento, misogino, estremo nella sua gelosia che lo portò a devastare il matrimonio, l'ennesimo, con Vickie LaMotta (Cathy Moriarty, all'epoca appena diciottenne, ma ruvida e matura al punto giusto), e a sfasciare quello che era il suo unico punto di riferimento, ossia suo fratello Joey, interpretato da Joe Pesci (scovato da De Niro in un film tv di quart'ordine, The Death Collector), che intanto, da buon italoamericano, si arrabattava come cameriere in un ristorante del New Jersey.
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L'auto-distruzione come poesia cinematografica
LaMotta ha preso a pugni tutti, a cominciare da sé stesso. Il punto, è che scrivendo di Raging Bull potremmo non finire più: talmente turgido, talmente avulso dalla poetica dello sport visto (d)al cinema, che ogni paradigma oggettivo si disperde sotto i riflessi bianchi e neri, talmente essenziali nella struttura filmica che basterebbero già i titoli di apertura a rendere l'idea dell'opera d'arte: Robert De Niro, sul ring, che si riscalda e saltella, in un soave e morbido rallenty. Attorno a lui, i flash dei fotografi che sembrano usciti da una coltre di nebbia, a metà tra il sogno e la veglia. Scorsese sembra osservarlo, da fuori le corde. Impaurito, reverenziale verso una tigre selvaggia, affamata.
Un'osservazione e non una ripresa. Un'osservazione umana e spassionata, coordinata ma squadrata: De Niro sulla nostra sinistra, ad occupare solo fugacemente lo spazio senza mai invaderlo o centralo. Quasi fosse una fotografia. Sotto, per genio e per osmosi, i violini sinuosi della Cavalleria Rusticana di Pietro Mascagni. Note dolci, gentili. Sembra quasi che la melodia stesse risuonando da qualche parte nella testa di una figura irregolare e drammaticamente umana, un attimo prima dell'inferno livido e senza fondo che avrebbe affrontato, perdendo miseramente. Un attimo di soffice e lucida pace, regalato idealmente da Scorsese poco prima della distruzione: "Il mio regno per un cavallo".