Non si può non guardare con favore al debutto registico di un'artista originale come Eleonora Danco, scrittrice, attrice e regista teatrale che alla 32.ma edizione del Torino Film Festival ha presentato N-Capace, favola metropolitana in cui racconta le (dis)avventure di una donna, ribattezzata Anima in pena che, vagando tra Terracina e Roma, si interroga su questioni fondamentali della vita. E lo fa lasciandosi andare al flusso delle emozioni, incontrando e interrogando persone diversissime tra loro, alla ricerca di una risposta soddisfacente.
Dopo una lunga e ricca e carriera teatrale, segnata da una proficua collaborazione con Mario Martone, per la Danco è arrivato il debutto dietro alla macchina da presa, punto di arrivo di un lavoro durato circa dieci anni, in cui si è confrontata con un mezzo completamente diverso dal teatro, per la sua "immobilità", e pure profondamente affine nello spirito, soprattutto per ciò che concerne il lavoro di ricostruzione artificiale della realtà.
Cinema e teatro, immagine e corpo
Eleonora, ci racconti a grandi linee il percorso che ti ha portato alla
realizzazione di N-Capace?
Eleonora Danco: Tutto è nato dalla morte di mia madre, ma non in senso drammatico, non ho provato neanche dolore, non so cosa ho provato, forse una forma di rifiuto al dolore. Avevo in mente un'immagine ben precisa, quella di mio padre e della sua badante e con loro, dieci anni fa, ho fatto degli esperimenti, chiedendogli di urlare o di arrampicarsi.
Dal film capiamo che hanno fatto resistenza...
Soprattutto mio padre, che però poi si è lasciato andare, mentre lei fortunatamente si arrampicava eccome. Ecco, quello è stato il primo bacillo, il primo rapporto con l'immagine che tanto volevo fare. E poi da questo ho iniziato a studiare e a vagliare le tante ore di materiale che avevo a disposizione, ho fatto un piccolo promo che piaceva a tutti, anche se nessuno poi ha voluto produrlo. Devo dire grazie a Cecilia Valmarana, che è stata l'unica ad accogliermi a braccia aperte e ad Angelo Barbagallo che l'ha preso in mano e l'ha fatto vivere.
Ci sono storie che secondo te si possono raccontare solo attraverso un medium come il cinema?
Del cinema amo l'essenza artificiale, che poi è molto vicina al teatro che faccio io. Ero affascinata dal rapporto con i suoni, con l'immagine, ma, come a teatro, anche col cinema devi trovare la messa a nudo, perché quello che cerchi deve arrivare d'impatto. In realtà è come fare un quadro. Ciò che invece mi faceva paura è il fatto che il tuo lavoro rimane e non si può modificare. Il cinema mi ha dato un altro tipo di energia, ovvero riuscire a mantenere viva qualcosa che poi non puoi più toccare e questo mi ha smosso un altro tipo di creatività._
E questo ti ha messo in crisi?
No, niente mi mette in crisi, io mi metto in crisi da sola. Dico di più, mi ha esaltato girare, come se andassi a fare sega a scuola, mi ha scatenato un'energia mostruosa. E poi avevo tutto chiarissimo di come volevo le immagini. Mi sono ispirata a De Chirico per il rapporto tra l'essere umano e l'architettura e alla prospettiva di Giotto, tanto reale quanto volante.
Ti piacerebbe metterti alla prova con un altro lavoro al cinema? Sono un'adulta e non mi esalto così facilmente, so che è tutto difficile da ottenere, ma se lo vuoi lo ottieni. Un passo alla volta.
Genitori e figli
Nel tuo film ti sei confrontata con le vecchie generazioni e con i giovani di oggi. Che impressione ti hanno fatto?
I vecchi sono pieni, hanno vissuto tutto, per questo a loro non interessa più nulla. I ragazzi, invece, sono in conflitto, per questo non ho chiesto di rispondere a domande precise, ma li ho fatti mettere in gioco. Non è mai facile stare davanti ad una macchina da presa, c'erano persone davanti a loro. Volevo che loro dimenticassero questo aspetto e che lavorassero sulla fisicità, che è quello che faccio con i ragazzi dei seminari, tutto viene da lì.
Il rapporto con tuo papà è così conflittuale?
No, adesso è idiliaco, se ci vedevi vent'anni fa... In realtà non è mai cambiato il rapporto con lui, è solo meno violento. E' strano pensare che quello che cerchiamo di distruggere è quello che ci ha creato, uno lo deve anche accogliere. Lo capisci quando è troppo tardi, quando sei vecchio. Secondo me non ci si può separare mai dai propri genitori, ma necessariamente ci si può allontanare, cioè non sentirsi in colpa rispetto al fatto che è il tuo genitore.
Una N-Capace alla conquista di Torino
Che emozioni ti sta suscitando il festival?
Non ci capisco nulla! Che ti devo dire, sono felice, per me è una conquista essere stata presa in un festival, in concorso. Poi in un festival dove non c'è il tappeto rosso, dove vieni a fare il tuo lavoro e non una sfilata di moda. Io amo la moda, sia chiaro, è una cosa in avanti, come la musica, ma Torino, che è una bellissima città, ha un festival importante, serio e concreto. E' già una vittoria.
L'ultima domanda è un curiosità relativa al titolo del film, N-Capace. Perché questa forma così particolare?
Volevo mettere in evidenza che tutti siamo No capaci, perché la N è un no, ma anche capaci, se avessi messo Incapace sarebbe stato definitivo e non è così, mi piaceva questa doppiezza.
Ti hanno mai fatta sentire incapace?
No, gli altri no, i no mi provocano, mi fanno vivere. Io stessa mi sento incapace a volte. Vai a capire perché.