Sapete, è l'America: vogliono qualcuno da amare, vogliono qualcuno da odiare.
La scena conclusiva di Tonya è uno dei più incisivi explicit visti quest'anno sul grande schermo. Si tratta di un finale strutturato in due parti, con due accompagnamenti musicali ben distinti: prima la voce carezzevole di Doris Day e la sognante melodia di Dream a Little Dream, su un montaggio incrociato di Tonya Harding al ralenti mentre volteggia sui pattini e mentre crolla sul tappeto di un ring. "Non esiste la verità, è una stronzata! Ciascuno ha la propria verità, e la vita fa quel cazzo che le pare".
"Questa è la storia della mia vita", aggiunge Tonya, con il volto tumefatto di Margot Robbie, sputando sangue sul ring; "E questa è la fottuta verità!". La ragazza sogghigna alla cinepresa, quindi si rialza e riprende a combattere, ma l'inquadratura rimane fissa sulla chiazza di sangue; intanto la musica cambia completamente tono, e a Doris Day subentrano le note incalzanti del classico di Iggy Pop The Passenger e la voce profonda e cavernosa di Siouxsie Sioux, a corredare i titoli di coda e i filmati di repertorio della vera Tonya Harding.
Leggi anche: Tonya: la voce della strega
"I am the passenger and I ride and I ride"
La "doppia anima" di questo epilogo, nel suo bizzarro connubio fra registri, sensazioni e musiche così diversi, è emblematica della natura stessa di un'opera come Tonya, in assoluto tra i migliori film realizzati negli Stati Uniti nel corso del 2017. Ritratto biografico della pattinatrice Tonya Harding, al centro di uno dei più discussi scandali sportivi degli anni Novanta, Tonya costituisce il frutto degli sforzi congiunti del regista australiano Craig Gillespie (Lars e una ragazza tutta sua), dello sceneggiatore Steven Rogers e di Margot Robbie, co-produttrice dell'intero progetto e magnifica protagonista, con una performance trascinante che le ha fatto guadagnare la nomination all'Oscar come miglior attrice. Ma fra i canonici "biopic da Oscar", accanto a titoli come L'ora più buia e The Post, Tonya occupa una posizione decisamente particolare.
In primo luogo, la pellicola di Gillespie non afferisce al filone dei racconti edificanti su eroi moderni, come Winston Churchill o Katharine Graham: Tonya Harding è salita infatti alla ribalta delle cronache mondiali nel 1994, quando le fu attribuita la responsabilità di un'aggressione fisica consumata ai danni della sua rivale Nancy Kerrigan, un mese prima delle Olimpiadi invernali di Lillehammer. Uno scandalo che avrebbe disintegrato la folgorante carriera della Harding, e che Tonya rievoca come un momento pivotale nella parabola ascendente di questa ragazza dell'Oregon: un talento purissimo nell'ambito del pattinaggio sul ghiaccio, nota per il suo celeberrimo triplo axel, ma anche un'outsider invisa (almeno in parte) all'establishment sportivo e con una tormentata vita familiare.
Leggi anche: Da Borg McEnroe a I, Tonya: quando il cinema si appassiona ai grandi duelli sportivi
"She's just a devil woman with evil on her mind"
Ma non è unicamente la materia narrativa, con la sua classica dicotomia del trionfo e del fallimento, a rendere Tonya uno dei film di maggior valore dell'annata, quanto piuttosto il modo in cui Craig Gillespie e Steven Rogers giocano con le regole e le convenzioni dei generi cinematografici, sfoderando un'ammirevole arditezza e un ritmo serratissimo. A partire dall'incipit, che prende in prestito la struttura del documentario: in questo caso, un documentario 'recitato', ma volto a ricreare le vere interviste a Tonya Harding, oggi disillusa donna di mezza età con la sigaretta perennemente accesa, al suo ex marito Jeff Gillooly (Sebastian Stan) e alle altre figure che hanno fatto parte della vita della famigerata pattinatrice. Una vita che il film ricostruisce a partire dai primi (e già spediti) passi sul ghiaccio, con la sua esibizione, a soli quattro anni, al cospetto della futura allenatrice Diane Rawlinson (un'impeccabile Julianne Nicholson), sul brano Devil Woman di Cliff Richard.
Ma la formazione, gli ostacoli e la crescente popolarità di Tonya Harding, che spiazza i giurati delle gare di pattinaggio con i propri costumi cuciti a mano e dai colori sgargianti, non rientrano nella consueta retorica sull'agonismo sportivo e sulla lotta per superare i propri limiti. Tonya, al contrario, riprende gli ingredienti del dramma sportivo per incastonarli in un racconto puntualmente virato in chiave di black comedy; un racconto che sposa la prospettiva del personaggio eponimo, con tanto di occasionali rotture della "quarta parete", ma che di scena in scena si trasforma in una girandola grottesca e allucinata, in cui al paradigma del successo e dell'affermazione individuale si sovrappone, di volta in volta, un inquietante campionario di miserie quotidiane.
Leggi anche: Margot Robbie, da Scorsese a Suicide Squad: l'ascesa di una giovane diva
"Don't you think you're fallin'?"
È un meccanismo messo in atto sia nella rappresentazione delle tappe principali della carriera della Harding, sia nella descrizione di una vita privata tutt'altro che semplice. E così l'idillio romantico fra Tonya e Jeff, con le dolcissime Shooting Star dei Bad Company e Romeo and Juliet dei Dire Straits a fare da sottofondo alla loro storia d'amore, viene presto incrinato dalle violenze domestiche subite dalla ragazza, capovolgendo il tòpos sentimentale così ricorrente nei biopic. Ancora più scioccanti sono però le dinamiche nel rapporto fra Tonya e sua madre, l'eccentrica, spregiudicata, severissima LaVona Golden: una mostruosa mamma-gorgone, con la battuta affilata e lo sguardo di ghiaccio, che non si fa scrupoli nel privare la figlia di qualunque gesto d'affetto. Un personaggio snaturato a cui presta volto e voce, con una vena di terribile ironia, la sopraffina Allison Janney, ricompensata con il premio Oscar, il Golden Globe e il BAFTA Award come miglior attrice supporter.
Tonya, in sostanza, finge di adattarsi ai codici d'ordinanza dei vari generi di riferimento, dalla biografia al film sportivo, dalle tradizionali sequenze di training alle scene clou delle sue imprese sulla pista di pattinaggio, mentre in realtà tali codici li piega e li deforma a proprio piacimento. Sembra aderire al punto di vista della Harding, ma in maniera altrettanto rapida bilancia l'empatia con una repentina presa di distanze, optando per una struttura polifonica che include perfino un contrappunto scopertamente beffardo, quello affidato al reporter televisivo Martin Maddox (Bobby Cannavale). Il tutto senza mai dimenticare il gusto per la narrazione, una narrazione che Gillespie sa rendere accattivante e vivacissima, sfruttando alla meglio una soundtrack tanto variegata quanto funzionale agli innumerevoli mood del film: si passa così, fra le altre, da Spirit in the Sky di Norman Greenbaum a Sleeping Bag degli ZZ Top, da Can't You See della Marshall Tucker Band a Feels Like the First Time dei Foreigner, da Every 1's a Winner degli Hot Chocolate a Goodbye Stranger dei Supertramp, da Barracuda delle Heart a Gloria di Laura Branigan, da 25 or 6 to 4 dei Chicago all'intramontabile The Chain dei Fleetwood Mac.
Leggi anche: Da Ridley Scott e Margot Robbie al caso Stefano Cucchi: ecco il 2018 di Lucky Red!
"Dream a little dream of me"
Nella seconda metà del film, con l'agguato contro Nancy Kerrigan (Caitlin Carver), Gillespie preme ancora più a fondo sul pedale dello humor nero: l'intera macrosequenza dell'aggressione, portata a compimento da una coppia di balordi, potrebbe provenire direttamente dal cinema dei fratelli Coen. D'altra parte, nell'epoca del postmodernismo neppure il delitto può sperare di assumere uno spessore tragico: l'evento clou del film si riduce così a un'azione goffa e ridicola, condotta da due furfanti improbabili per conto dalla più bislacca delle menti criminali, Shawn Eckhardt (Paul Walter Hauser), un fool coeniano senza arte né parte, in preda ai deliri di grandezza perfino mentre annega nella propria mediocrità. Quella mediocrità a cui, nonostante tutto, la stessa Tonya (ignara o complice?) tenterà fino all'ultimo di sottrarsi.
Ed è a lei, Tonya Harding, con la sua malcelata invidia sociale, l'orgoglio ferito ma non ancora spezzato, l'incapacità di assumersi la responsabilità delle proprie sconfitte, che si ritorna in un ultimo atto quanto mai doloroso. Un finale in cui il film, dopo aver portato la sua protagonista ad incarnare il modello dell'American Dream, di quel "sogno" delinea invece un controcanto inesorabilmente cupo ed amaro. Tonya si trasforma così nella pastorale di un'America che fagocita e celebra i propri orrori: un'America in cui al clamore mediatico della vicenda Harding/Kerrigan già sta per sostituirsi quello per il caso di O.J. Simpson, ennesimo idolo caduto e pronto a tramutarsi in mostro sotto gli occhi di un'intera nazione. "Sapete, è l'America: vogliono qualcuno da amare, vogliono qualcuno da odiare", ci ammonisce Tonya, mentre indossa i guantoni e sale sul ring, pronta ancora una volta ad intrattenere il suo pubblico. Perché il sogno si sarà pure infranto, ma c'è sempre uno spettacolo da portare avanti e altro sangue che dev'essere versato...