Il sogno americano è morto, il sogno americano è vivo. Illusioni e disillusioni, gli incubi a metà, la disperazione e la bellezza. Uno sguardo, a sua volta, tanto folgorante quanto spettrale, pizzicando un cinema acustico, dove le immagini si fanno quadri e le parole musica dolente. C'è il cinema indipendente contemporaneo, e ci sono le inflessioni del cinema di Peter Bogdanovich e di John Schlesinger. Bellezza e bruttezza nei loro concetti più grammaticali, ma poi la speranza che torna a montare. Inaspettatamente. Ecco cos'è To Leslie di Michael Morris, se non fosse poi (anche) il ritratto amaro dell'altra faccia degli Stati Uniti, unti e bisunti nelle dipendenze e nelle ossessioni; la terra promessa, quindi, diventa una landa desolata dove gli ultimi sono ancora più ultimi, vagando di bar in bar, da motel in motel, da dollaro in dollaro, accartocciati nelle tasche di un paio di Wrangler sdruciti.
Accartocciata e calpestata come la protagonista di To Leslie, interpretata da una meravigliosa Andrea Riseborough (e sì, avrebbe meritato l'Oscar). Un personaggio pieno di cose, che è ogni cosa e non è nulla, talmente distrutta da non sentire più niente, intanto che lo sguardo della Riseborough si rimpalla tra una smorfia ed un sorriso sbilenco. O forse no, Leslie sente tutto, più di tutto: perché il film di Morris, all'esordio, prende una scomoda posizione e si mette al fianco dei dimenticati, tiene per mano coloro vengono spremuti, schiacciati da una società facilona pronta a giudicare, dimenticando i paradigmi della compassione e dell'empatia. Il regista ne fa cinema di sostanza; quel cinema che racconta una storia, magari già vista e magari già sentita, che vive in simbiosi con i volti e i paesaggi di un immaginario dolente e irrinunciabile.
To Leslie, la trama: Dolly Parton, una valigia rosa e la polvere del Texas
Non è un caso, dunque, che lo stesso immaginario americano, ben lontano dagli Skyline di New York o Los Angeles (no, quella non è la vera America), si sposi incredibilmente bene con certe tonalità visive e musicali. Dunque, A Leslie inizia e finisce con la musica. Ancora una volta, chitarra e voce. Ad aprire la storia di Leslie ecco Dolly Parton con Here I Am, mentre sotto scorrono un mucchio di fotografie, tenute nella valigia rosa che Leslie trascina da una parte all'altra del Texas occidentale, tra polvere e fantasmi. Leslie, sei anni prima, ha vinto 190 mila dollari alla lotteria locale, dissipandoli in droga e, soprattutto, in alcol.
Leslie, indigente e consumata, ha un figlio ormai grande (e arrabbiato), ovvero James (Owen Teague), e quando viene cacciata da un motel torna a bussare alla sua porta, chiedendogli ospitalità. La promessa di non bere, però, viene subito infranta: Leslie ruba dei soldi al compagno di stanza di James, comprando vodka a buon mercato. Del resto, Leslie è così: ci prova, ma ci ricasca sempre. Tornata per strada, incontra il cuore buono di Sweeney (Marc Maron), gestore di un motel, che le offre una stanza e un lavoro come inserviente. Nulla di speciale, ma è un inizio. Un nuovo inizio. Ciononostante, e come accade in ogni parabola, fuori c'è un mondo oscuro, e la dipendenza alcolica continua a chiederle il conto.
Una ballata country
Le tracce di To Leslie, secondo Micael Morris, sono tre: i luoghi, i personaggi, e la musica. Lo colonna sonora di Linda Perry (esatto, la voce che ha segnato gli anni '90: quella dei 4 Non Blondes) non è solo di accompagnamento, ma trasmette puntualmente le emozioni provate da Leslie, e di contraltare le emozioni trasmesse allo spettatore. C'è un'intenzione e una globalità generale, e le sonorità del film sono una delle tracce principali, dando alle immagini una certa profondità. Ed è poi la scrittura di Ryan Binaco ad essere il materiale su cui il regista costruisce l'intera visione: le strade larghe del Texas, dove le macchine sfrecciano indifferenti, diventano il crocevia di una vita in bilico tra la resistenza, il tormento e la perseveranza, intanto che l'analisi sociale diventa racconto intimo, trascinato dalla prova di Andrea Riseborough, mai banale e mai eccentrica. Ha gli occhi grandi e tristi, Leslie, ha la pelle bianca come la porcellana, ed è sgraziata come una ballerina con i camperos. Ed ha una capacità incredibile: adattarsi, e far si che le persone si adattino a lei.
Del resto, To Leslie è un film di scontri, di birra calda e di solitudini che si incontrano. Il sogno americano è morto, per Leslie, ma forse, invece, Leslie è l'equazione perfetta per farci credere, ancora ed ancora, a quelle vecchie favole di utopie e di rinascite, nel segno delle seconde possibilità incontrate più per caso che per destino. Parabola fragile, la resistenza di una madre, lo sbaglio come tentativo, una sigaretta fumata fino al filtro, e la vita che cade addosso, tradotta da quel cinema ancora capace di emozionare come se fosse una vecchia ballata country. To Leslie è cinema emotivo, cinema di sensazioni quasi primordiali, che punta all'essenza, alla narrazione e alle suggestioni delle immagini. Cinema che resta addosso, come l'odore del caffè appena fatto, o come il calore di un abbraccio finalmente ritrovato.
Conclusioni
Colori ed emozioni di un storia essenziale, dove le parole e le immagini sono in funzione di una storia disperata e folgorante. E poi la grande prova di Andrea Riseborough, dolente, bellissima, accartocciata in un ruolo estremamente complesso. Come raccontato nella recensione di A Leslie (titolo originale, To Leslie), il film è una ballata cinematografica ad alto tasso emotivo, riflettendo (anche) sulla dimensione sociale degli Stati Uniti d'America, tra polvere, alcol e fantasmi.
Perché ci piace
- La bravura di Andrea Riseborough.
- I colori.
- La colonna sonora.
- I tratti disperati, per una storia umana.
Cosa non va
- Forse la durata. Due ore, un filo eccessive.