Maceti, lance, teste mozzate, lame affilate, unghie che affondano nelle carni e cavano gli occhi, acrobatici corpo a corpo: non siamo a Sparta ma nell'Africa del XIX secolo, nel regno del Dahomey, e al posto dei valorosi soldati spartani, troviamo un manipolo altrettanto coraggioso e ben addestrato di guerriere, il sanguinario esercito delle Agojie. Nella recensione di The Woman King (in sala dal 1° dicembre) proveremo ad analizzare il tentativo tutto hollywoodiano di raccontare attraverso gli slanci epici del genere storico fatti realmente accaduti, riportando al centro questioni molto dibattute come lo schiavismo e la condizione femminile, ma da una prospettiva che restituisce al continente africano quella centralità e quel protagonismo negati da secoli di narrazione stereotipata ed Occidentale.
Nel complesso il film di Gina Prince-Bythewood si lascia apprezzare, inscrivendosi nella tradizione dell'operazione mainstream e dell'intrattenimento spettacolare in bilico tra l'epico e il melodramma. Peccato solo che molte delle tematiche rimangano appena abbozzate come pure l'analisi politico-sociale del contesto patriarcale in cui si fa spazio il modello di emancipazione femminile di cui sono portatrici le Agojie.
Le amazzoni del Dahomey tra epica e ricostruzione storica
In The Woman King la regista Gina Prince-Bythewood ripercorre le imprese di un popolo che trova in un corpo d'elite di sole donne la forza per affrancarsi dalle tiranniche pratiche del colonialismo. Al centro della vicenda, pur con una serie di licenze che hanno fatto storcere il naso a molti per scarsa aderenza ai fatti, un pezzo di storia del continente africano che segue gli epici combattimenti delle amazzoni africane del Dahomey, un corpo militare tutto al femminile realmente esistito, lo stesso che ha ispirato le impavide Dora Milaje dell'immaginario regno di Wakanda nell'universo Marvel di Black Panther. Siamo nel 1823 e sul Dahomey (oggi corrispondente al Benin) incombe la minaccia dei vicino Oyo; proteggerlo, con ferocia e abilità mai viste, è compito delle Agojie, temerarie vergini guerriere che grazie al loro valore militare sono riuscite silenziosamente a salire di rango e a conquistare negli anni diritti normalmente riconosciuti agli uomini.
Alla corte del re Ghezo hanno creato la loro oasi femminista, dove poter essere "cacciatrici e non prede": sacerdotesse della guerra in uno Stato a vocazione profondamente militarista si addestrano in estenuanti corpo a corpo, affilano lame e impugnano lance, ben coscienti del loro destino, perché tra le mura di quel palazzo "non prenderemo marito e non partoriremo figli". A guidarle è Nanisca, nerboruta leader e abile stratega, che cercherà di convincere il re a sostituire il commercio di schiavi, da cui il regno trae la maggior parte delle sue ricchezze, con quello dell'olio di palma. Nel frattempo tra le nuove reclute si farà notare la giovane Nawi, ragazza abbandonata dalla famiglia adottiva dopo aver rifiutato di andare in sposa all'uomo a cui era stata promessa: "Non voglio un marito, voglio essere una soldatessa". Intanto la guerra infuria e le Agoje si preparano a combattere.
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Tra protofemminismo e romanzo di formazione
Siamo dalle parti dell'action storico più classico, The Woman King recupera infatti un filone che guarda più a Braveheart - cuore impavido e a Il gladiatore che non a L'ultimo dei mohicani; trionfano lo spettacolo, la messa in scena della battaglia, la furia delle Agojie mentre combattono contro eserciti di soli uomini e le loro straordinarie prove di resistenza. Un film dallo sguardo fieramente femminile, che passa anche dalla celebrazione dei corpi e delle loro nudità: corpi che esibiscono orgogliosamente la loro feroce bellezza, le cicatrici e il vigore fisico, e che si esprimono al meglio nelle danze rituali tanto quanto nei combattimenti contro le vicine tribù nemiche. Sorellanza, coraggio, abilità con le armi e scaltrezza sono le qualità che permetteranno alle temerarie guerriere del Dahomey di sconfiggere l'avversario maschio; il racconto sa così farsi perdonare qualche libertà di troppo nella ricostruzione storica dei fatti, rinunciando a qualsiasi velleità documentaristica a favore del puro intrattenimento capace di portarsi dietro la riflessione sul gender e la questione razziale senza la retorica del vittimismo.
Nei panni di Nanisca, la soldatessa che conquisterà il diritto al trono diventando la "woman king" del titolo, troviamo una Viola Davis monumentale, in un ruolo cucitole addosso forse proprio in vista degli Oscar; non sono di meno le co-protagoniste a partire dalla giovanissima Thuso Mbedu, la ribelle Nawi, che occupa lentamente il centro della storia con il suo romanzo di formazione militare e sentimentale. Tra un addestramento e l'altro si fanno largo anche una love story e alcuni eventi traumatici del passato di Nanisca, che la sceneggiatura di Dana Stevens liquida però in maniera troppo frettolosa e approssimativa. Quel che rimane aldilà dello spettacolo visivo è un racconto che riformula il concetto di femminilità e cambia il punto di vista nella narrazione dello schiavismo costringendo l'Occidente bianco e ancorato al mito consolatorio dello zio Tom a starsene per una volta in disparte.
Conclusioni
Al netto della scarsa aderenza storica concludiamo la recensione di The Woman King sottolineando l’innegabile valore di un’opera che riporta al centro del dibattito attuale la questione gender e quella razziale ma attraverso un punto di vista inedito. La regista Gina Prince-Bythewood sceglie di farlo partendo infatti dalle vicende di un gruppo di guerriere feroci e spietate realmente esistite, le Agojie, una formazione militare di sole donne che tra il 1600 e il 1800 ebbero il compito di servire e proteggere il regno del Dahomey, l’attuale Benin. Il genere è quello del classico cinema d’avventura, l’action storico, l’epica con tanto di combattimenti e acrobatici corpo a corpo e qualche punta melò.
Perché ci piace
- Spettacolo e intrattenimento puro.
- Una narrazione epica che mescola romanzo di formazione, melò e genere storico.
- Il punto di vista originale che rimette al centro questioni come quella razziale e femminile, ma senza la retorica del vittimismo.
- La scelta di un fatto storico realmente accaduto nell’Africa del XIX secolo e poco conosciuto.
Cosa non va
- La sceneggiatura liquida frettolosamente alcune sotto trame che avrebbero meritato forse più spazio.
- Qualche licenza storica di troppo.