La scena conclusiva del film di Stephen Frears Le relazioni pericolose consiste in un primo piano di un minuto e mezzo della Marchesa de Merteuil: non una sola parola viene pronunciata, ma in quell'unica sequenza ininterrotta il volto di Glenn Close, per la prima volta totalmente 'nudo' di fronte allo spettatore, costituisce il veicolo perfetto per portare allo scoperto la sofferenza della protagonista. Non a caso si tratta di uno dei finali più potenti degli ultimi trent'anni di cinema, nonché di un formidabile saggio delle capacità dell'attrice americana. E a tre decenni di distanza, è ancora un primo piano della medesima attrice a suggellare uno dei momenti cruciali di The Wife, trasposizione dell'omonimo libro di Meg Wolitzer.
Mentre il sovrano di Svezia sta consegnando al romanziere Joe Castleman il premio Nobel 1992 per la letteratura, la macchina da presa inquadra il viso di sua moglie Joan, seduta in platea. E per una manciata di infiniti, logoranti secondi, in quel viso quasi immobile sembra scatenarsi una silenziosa tempesta: nel ritmo assunto dal suo respiro, nella linea serrata delle labbra, nella luce che brilla nel suo sguardo impietrito.
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The good wife: i personaggi al centro del dramma
In fondo, è emblematico che in un film imperniato sull'arte della scrittura il principale strumento espressivo, quello in grado più di tutti di convogliare la complessa realtà delle emozioni, non siano le parole, ma gli occhi. E c'è un intero, misterioso universo che si cela dentro gli occhi di Joan Castleman: fin da quando, nel cuore di una turbolenta notte d'autunno, la osserviamo apprendere al telefono dell'assegnazione del Nobel al marito Joe. Quali pensieri si agitano nell'animo della donna alla notizia che l'amato consorte sta per ricevere il più importante riconoscimento in campo letterario? E perché a quel primo lampo di felicità sembra far seguito un indefinibile velo di inquietudine? Su tale ambiguità, destinata ad addensarsi di minuto in minuto, è costruito The Wife, affidato alla regia dello svedese Björn Runge proprio dalla sua protagonista, una Glenn Close alle prese con uno dei ruoli più affascinanti di una carriera già ricca di personaggi memorabili.
Joan Castleman è la moglie perfetta, sempre pronta a rivolgere al consorte le sue affettuose cure: che si tratti di ricordargli di prendere le pillole per il cuore o di concedergli uno sbrigativo rapporto sessuale pur di placarne il nervosismo notturno. E naturalmente è lei ad affiancare Joe, impersonato in maniera impeccabile dall'attore gallese Jonathan Pryce, nei rutilanti preparativi per la cerimonia del Nobel; così come è lei che tenta di disinnescare le tensioni latenti fra Joe e loro figlio David (Max Irons), le cui ambizioni letterarie sono puntualmente scoraggiate dal confronto con un genitore tanto 'ingombrante'. Al contempo, il viaggio a Stoccolma risveglia in Joan ricordi risalenti a più di trent'anni prima: una passione per la scrittura che, da studentessa universitaria (interpretata dall'esordiente Annie Starke, figlia della Close), era stata alimentata dall'incontro con Joe (Harry Lloyd), il suo carismatico docente di letteratura.
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La scrittrice fantasma
In The Wife, tuttavia, le analessi non si limitano a fornire informazioni ulteriori sull'origine della relazione tra i due futuri coniugi, ma svolgono un compito forse pure superiore: innescare una riflessione sul valore stesso della finzione letteraria e del suo rapporto con la realtà. Un rapporto di rispecchiamento e di simbiosi, a tratti perfino vampiristico, che fin da giovane Joan riesce a cogliere con istintiva destrezza; e soprattutto, in cui si immerge con una dedizione che è anche, in qualche modo, una condanna inesorabile, da affrontare giorno dopo giorno, anno dopo anno, con impietosa consapevolezza. È l'elemento che, nella sapiente sceneggiatura di Jane Anderson (la cui penna aveva già adattato il romanzo di Elizabeth Strout per la meravigliosa miniserie Olive Kitteridge), si intreccia con l'altro tema chiave del film: il doloroso sacrificio di una vita trascorsa nell'ombra, per mero pragmatismo o magari per un sentimento inestirpabile, nonostante le ferite di trent'anni di matrimonio.
Perché se è innegabile che il bisogno di rivalsa di Joan, quella frustrazione covata troppo a lungo per restare sopita, emergono in prossimità dell'epilogo con forza dirompente (e, per ironia della sorte, la pellicola approda nelle sale nell'anno in cui il Nobel per la letteratura è stato rimandato in seguito a una catena di scandali sessuali), sarebbe però ingeneroso ridurre The Wife negli angusti confini dell'opera "a tesi", o ricondurre il rancore della signora Castleman unicamente alle scappatelle di un marito vanesio. Il film di Runge contiene sfumature ben più varie e, talvolta, volutamente contraddittorie o sfuggenti; così come l'enigma racchiuso in una protagonista che sfida costantemente il pubblico, spingendolo ad interrogarla - e ad interrogarsi - sulle sue intime motivazioni e sui compromessi (per quanto assurdi) dettati dal cuore umano.
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I am a kingmaker: una performance sublime per Glenn Close
Con un approccio del genere, tutt'altro che didascalico, ma che al contrario si affida ai sottintesi e alle "zone grigie", The Wife non funzionerebbe in maniera tanto magnifica se non fosse per un'interprete del calibro di Glenn Close. Dal suo brillante esordio ne Il mondo secondo Garp, guarda caso nei panni di una scrittrice femminista, passando per titoli come Il grande freddo, Attrazione fatale, Le relazioni pericolose e Albert Nobbs (ma nel mezzo ci sono pure tanto teatro e tanta televisione), la Close ha dimostrato più e più volte di essere una delle assolute fuoriclasse della propria generazione. Ma la sua performance in The Wife ha davvero del miracoloso: dai sottilissimi turbamenti delle scene d'apertura al ghiaccio bollente scolpito nel suo sguardo; dal confronto con il giornalista Nathaniel Bone (Christian Slater), un gioco fra il gatto e il topo condotto con la divertita malizia di un flirt, a quell'ultimo, catartico faccia a faccia con il marito Joe.
Passando, appunto, per la sequenza del Nobel, una master class di recitazione interiorizzata degna della sua Marchesa de Merteuil, o per l'amarezza disinvolta, quasi soave, con cui Joan risponde alla domanda del Re di Svezia su quale sia la sua occupazione. "I am a kingmaker", è la serafica replica della donna, nel momento in cui si accinge a rimettere in gioco la sua intera esistenza. In quelle quattro, fatidiche parole è contenuto il senso profondo della storia, ma anche la prova - l'ennesima - del talento di un'attrice sempre più stupefacente.
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4.0/5