Con la recensione di Storia di mia moglie affrontiamo uno degli oggetti più curiosi - sulla carta - del concorso di Cannes 2021: la prima produzione internazionale, in particolare a livello linguistico, affidata alla regista ungherese Ildikó Enyedi, cineasta raffinata che dopo aver vinto l'Orso d'Oro a Berlino nel 2017 per un'opera piccola e delicata ha coronato il sogno di una vita con un progetto più ambizioso, basato su un romanzo da lei particolarmente amato. Abbiamo infatti a che fare con l'adattamento di un libro di Milán Füst, noto romanziere ungherese, dato alle stampe nel 1946. Un testo che la regista ha potuto portare sullo schermo avvalendosi di prestigiosi collaboratori internazionali: oltre all'Ungheria, alla produzione hanno partecipato la Germania (WDR e la Komplizen Films di Maren Ade), la Francia (Arte France Cinéma) e l'Italia (Rai Cinema), contribuendo anche a livello di casting con nomi di un certo peso come Léa Seydoux, oggetto delle gelosie che attraversano il romanzo e il film.
Il capitano e sua moglie
Storia di mia moglie racconta la relazione fra l'olandese Jakob Störr (Gijs Naber) e la francese Lizzy (Léa Seydoux). Lui è un capitano, e passa gran parte dell'anno lontano da casa. Un giorno, mentre sta conversando in un ristorante con l'amico Kodor (Sergio Rubini), annuncia l'intenzione di chiedere alla prima donna che entrerà di sposarlo. Si tratta di Lizzy, la quale accetta la proposta e sembra non avere alcun problema con le ripetute assenze del marito, solitamente via per almeno un mese intero, se non di più. Lui inizialmente non mette in dubbio la fedeltà di lei, ma col passare del tempo, complice soprattutto la presenza di un tale Dedin (Louis Garrel) i sospetti si fanno sempre più forti, portando a momenti di dubbio tra i due. Il tutto espresso sotto forma di lezioni, che scandiscono i sette atti del film e le sue quasi tre ore di durata (per l'esattezza 169 minuti).
Léa Seydoux: da La vita di Adèle a futura Bond Girl, ecco la nuova sex symbol del cinema francese
Pasticcio internazionale
Il cinema di Ildikó Enyedi tende a muoversi in territori piccoli, delicati, ma non privi di una grande forza emotiva, come visto quattro anni fa in Corpo e anima che ha trionfato alla Berlinale (la regista è poi tornata nella capitale tedesca nel 2021 in veste di giurata per il concorso principale, assieme ad altri cineasti che hanno vinto il massimo riconoscimento in tempi recenti). È un cinema basato soprattutto sulle sottigliezze dei rapporti umani, e si intravede qualcosa di questo elemento anche qui, in alcuni sparuti momenti in cui i protagonisti si concedono lampi di sincerità ed evitano le convenzioni del melodramma. Non che quest'ultimo sia necessariamente un demerito, ma in questo caso è a svantaggio dell'operazione complessiva a causa della decisione di far recitare tutti in inglese, lingua scelta in quanto comunemente usata in ambito marittimo e navale ai tempi (la storia si svolge negli anni Venti). Un approccio storicamente corretto che però non tiene conto delle eventuali inibizioni espressive di un cast composto interamente da attori che nel migliore dei casi parlano l'inglese come seconda lingua.
Corpo e anima: l'amore non è bello se non fa sognare
È un gruppo composto da attori olandesi (Naber), francesi (Seydoux, Garrel), italiani (Rubini e Jasmine Trinca), svizzeri (Luna Wedler), austriaci (Josef Hader) e altri. Tutti disposti a entrare nel mondo immaginato dalla regista, che porta sullo schermo il romanzo di Füst con un'eccelsa patina visiva d'altri tempi, ma in parte bloccati dal doversi esprimere, spesso in modo emotivamente forte, in una lingua che non è la loro (e questo è particolarmente evidente nei rari momenti in cui invece li sentiamo alle prese con i rispettivi idiomi natii). Rimane così una confezione elegante i cui contenuti però sono solo in parte dotati delle giuste qualità, fino ad arrivare alla settima lezione che sa un po' di beffa finale nei confronti di chi si appresta a consumare i non pochi minuti di un progetto ambizioso ma drammaticamente inerte.
Conclusioni
Chiudiamo la recensione di The Story of My Wife, sottolineando come si tratti di un ambizioso ma vuoto melodramma sentimentale che porta sullo schermo un romanzo molto caro alla regista ma si perde tra le pieghe di un copione farraginoso affidato a un cast internazionale non interamente a suo agio con la lingua inglese.
Perché ci piace
- Léa Seydoux è affascinante e conturbante nel ruolo della moglie.
- La componente visiva, in particolare la ricostruzione storica, è encomiabile.
Cosa non va
- I dialoghi sono a tratti faticosi, e gli attori a disagio con l'inglese.
- La durata del film può essere scoraggiante per parte del pubblico.