Non è mera imitazione, quella operata da Ehren Kruger (sceneggiatore) e Gore Verbinski (regista) sul film culto del giapponese Hideo Nakata, Ringu. Quella che questo remake americano ci ha portato è piuttosto una diversa interpretazione della storia originale, che partendo dagli stessi presupposti (e, grossomodo, dallo stesso intreccio) sviluppa gli stessi in modo del tutto originale, filtrandoli attraverso la propria ottica e una sensibilità che è assolutamente occidentale. Così, mentre Ringu per tematiche, atmosfera, messa in scena e modo di far presa sui nervi dello spettatore, era una pellicola tipicamente e squisitamente orientale, questo The Ring è un film che, nel suo svolgimento, può essere inserito in un certo filone dell'horror americano, che dal 2000 in poi (con Il sesto senso) ha portato un rinnovato interesse per le ghost story.
Un diverso modo di mettere in scena la paura, quindi: laddove il film di Nakata sceglieva di centellinare le scene di spavento, inserendole nei punti giusti e lasciando nel resto del film un'atmosfera di latente angoscia, tanto più efficace in quanto inafferrabile, questa nuova pellicola si affida di più a singole sequenze-schock, dedicandosi altresì a sviluppare la trama secondo canoni più logici e meno "cerebrali". La sequenza di spavento in sé, il più delle volte, funziona, raggiunge il suo scopo: vedi il primo, improvviso flashback sul cadavere della giovane Katie, orribilmente sfigurato (molto presente qui l'uso del make-up, praticamente assente dal film originale), o il lungo sogno in cui Rachel entra per la prima volta in "contatto" con Samara. In altri casi, tuttavia, la ricerca dell'effetto shock sembra gratuita e fine a se stessa: un esempio è quello dell'apparizione dell'insetto all'interno dell'archivio in cui Noah sta compiendo la sua ricerca, o alcuni "passaggi" di sequenza che, con l'ausilio del sonoro, sono studiati appositamente per ottenere il classico "salto sulla sedia" da parte dello spettatore; un effetto, in questo caso, gratuito in quanto del tutto slegato dal contesto narrativo. Paradossalmente, però, alcune delle scene che sono state "riprodotte" dal film originale perdono qui parte della loro efficacia: ne è un esempio la sequenza iniziale, quella della morte di Katie: allungata in durata, "abbellita" da alcuni elementi assenti dall'originale (la presenza dell'acqua, ad esempio, che cita un altro film sempre diretto da Nakata, Dark Water), non riesce a restituire tutto il senso di angoscia e di innaturale paura che l'originale, con meno inquadrature, era riuscito a trasmettere. Stesso problema, ma per ragioni opposte, lo abbiamo nella sequenza della fuoriuscita di Samara dal televisore, una delle scene in assoluto più terrificanti del film giapponese: la sua riproposizione da parte di Verbisnki appare un po' "tirata via", troppo veloce nei tempi e in parte guastata da un uso eccessivo degli effetti speciali e del make-up (ancora una volta praticamente assenti dall'originale).
Oltre al modo di far presa sullo spettatore, è il modo di narrare a differire in modo abbastanza sostanziale nei due film: laddove la pellicola di Nakata appariva piuttosto criptica nello svolgimento, con molti passaggi oscuri che contribuivano a creare il senso di onirica angoscia e di sottile disagio di cui era permeata, Verbinski e Kruger sentono molto di più la necessità di spiegare: punto di partenza è la costruzione di un intreccio che parte dal filmato maledetto, qui più lungo e nello stesso tempo più "rivelatore" di quello del film originale, e che segue, come indizi, le immagini solo apparentemente senza senso in esso contenute. Modifiche sostanziali sono state apportate anche ai personaggi e alle loro relazioni: il bambino, ad esempio, personaggio abbastanza secondario nel film originale, diventa qui elemento fondamentale della storia, con le sue percezioni extrasensoriali (analoghe a quelle del piccolo protagonista del già citato Il sesto senso). Un motivo, questo dell'attribuzione di capacità "speciali" al mondo dell'infanzia, che è da sempre parte del cinema fantastico americano (e della relativa letteratura: si pensi solo all'importanza che riveste nelle storie di uno scrittore come Stephen King), e che contribuisce al carattere profondamente "occidentale" di questo remake. Un carattere confermato dagli altri personaggi, e dal loro modo di rapportarsi l'uno all'altro: laddove Nakata sceglie di dirci poco e niente sui motivi della separazione tra i due protagonisti, lasciando implicita la loro storia (e il loro dolore) all'interno delle situazioni, e affidandosi soprattutto alla recitazione degli attori, Verbisnky ancora una volta preferisce spiegare, esplicitare: la relazione tra Rachel e Noah è stata un fuoco di paglia, la nascita di Aidan un "incidente di percorso", i rapporti tra padre e figlio sono problematici e subordinati al risentimento provato dal bambino verso il padre. E' emblematico che, nel film originale, l'unico incontro tra padre e figlio sia quello, breve e silenzioso, sotto la pioggia: la scena, che riprodotta da Verbinsky perde parte del suo significato, sta a indicare la presenza di mondi separati, lontani e difficilmente avvicinabili. Paradossalmente, il finale del film sembra contraddire in parte la sua impostazione di fondo: dopo essersi preoccupati di ricomporre gli eventi narrati da Nakata in una struttura più consequenziale, Verbinski e Kruger confezionano un finale che lascia la spiegazione agli indizi e alle immagini, più che alle parole (come invece succedeva nella pellicola originale): questo, tuttavia, senza tradire lo spirito di base (e le implicazioni) del finale del film giapponese.
L'occidentalizzazione della storia è evidente anche sotto un altro aspetto: l'importanza del mezzo televisivo come veicolo per l'orrore. Le TV, qui, sono sempre accese, e Verbinski lascia intendere che sono loro, in realtà, ad uccidere. Non è casuale infatti il modo in cui avviene il suicidio del vecchio Richard, folgorato da un apparecchio televisivo lasciato cadere nell'acqua in mezzo a cavi e apparecchiature di ogni genere; così come non è casuale che, nella sequenza iniziale, la TV si accenda un'ultima volta per lasciar uscire lo spettro di Samara, apparizione legata a doppio filo al mezzo che la ha "nutrita" in vita e la ha poi riportata in questo mondo. Lo stesso finale conferma questa impostazione: anche dopo essere uscita dallo schermo, Samara resta una presenza fatta di onde elettromagnetiche, tant'è che la sua figura, ad un certo punto, per un attimo "perde sintonia". Un tema, quello dell'angoscia portata dal mezzo televisivo e dal suo uso e abuso, che è sempre stato proprio di certo cinema statunitense (fantastico e non) degli ultimi trent'anni.
Con questo remake, in definitiva, siamo di fronte a qualcosa di più e di diverso da una semplice, pedissequa riproposizione del modello originale: al di là del suo carattere di operazione commerciale, il film di Verbinski "fa sua" la storia originale, e, cambiando il minimo indispensabile, la riadatta ad una sensibilità e ad un modo di vedere il fantastico che sono tipicamente occidentali. Le proteste degli appassionati del Ringu originale sono giustificate quando puntano il dito sulla mancata (o limitata) distribuzione in occidente di quella e altre pellicole del genere; ciò non toglie che, pur condividendo le motivazioni di base del malcontento, a chi scrive piacerebbe che i remake, se ci devono essere, fossero fatti tutti in questo modo.
The Ring: interpretazione, non imitazione
Non è mera imitazione, quella operata da Ehren Kruger (sceneggiatore) e Gore Verbinsky (regista) sul film culto del giapponese Hideo Nakata, Ringu. Quella che questo remake americano ci ha portato è piuttosto una diversa interpretazione della storia originale.