Forte dello strepitoso risultato di Perfetti sconosciuti, il film-rivelazione dell'industria cinematografica italiana della prima metà del 2016 nonché uno dei maggiori successi di pubblico degli ultimi anni, il prolifico regista Paolo Genovese si avventura in un'impresa ancora più ambiziosa: realizzare un film costruito attorno a una rigorosa "unità di luogo" e in cui l'intera narrazione si sviluppa unicamente attraverso i dialoghi fra i personaggi.
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L'ambientazione circoscritta è quella di un bar di Roma, chiamato appunto The Place, in cui un individuo misterioso siede perennemente a un tavolo in fondo al locale, ricevendo di volta in volta le visite di un disparato gruppo di uomini e donne, desiderosi di ottenere qualcosa da lui. È l'assunto alla base di The Booth at the End, serie televisiva americana non troppo nota risalente al 2010, che ha offerto a Genovese e alla sua co-sceneggiatrice Isabella Aguilar il soggetto per questo The Place.
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Black Mirror, Italian style
L'individuo protagonista di tali incontri non ha un nome e sfodera l'atteggiamento serafico e il pacato distacco di Valerio Mastandrea, che torna a farsi dirigere da Genovese dopo Perfetti sconosciuti. Tutti coloro che si presentano al suo cospetto hanno un desiderio da far avverare: che si tratti di banali sogni erotici, di guarigioni miracolose da handicap o malattie o di rapporti da ripristinare (o azzerare). E l'uomo, dopo averli ascoltati imperturbabile prendendo appunti su un voluminoso libro nero, si dichiara disposto a esaudirne le richieste, ma a una condizione: ciascuno di loro, per vedere la propria speranza trasformarsi in realtà, dovrà compiere qualche sorta di misfatto. Pure in questo caso, il valore delle 'missioni' assegnate a ciascun comprimario è assai variabile: si passa dall'infrazione di un voto di castità al caso più grave, ovvero un'autentica strage.
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Per certi versi, il meccanismo al cuore di The Place potrebbe rievocare, pur senza la componente tecnologica, l'approccio tipico di alcuni episodi di Black Mirror: persone comuni spinte a prendere decisioni e a commettere azioni che vanno a toccare i nervi scoperti dell'etica, facendo rimbalzare verso lo spettatore dilemmi morali che si traducono, sullo schermo, in fatidiche svolte narrative dagli esiti incontrollabili. Un presupposto intrigante, insomma, a maggior ragione considerando che alla frammentarietà delle singole storyline fa da contrappunto una trama che tende ad intrecciare quanto più possibile i numerosi subplot, benché in maniera molto telefonata; e infatti il più delle volte la tensione viene smorzata sul nascere proprio dalla prevedibilità di uno script che fatica a far montare la suspense (pressoché inesistente), si incaglia in inutili ridondanze (si veda l'episodio della Marcella di Giulia Lazzarini) e regala davvero poche sorprese.
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Dieci sconosciuti in un film tutt'altro che perfetto
Ma il problema principale di The Place, il limite che ne soffoca inesorabilmente la pur lodevole ambizione, non è tanto la natura programmatica di un copione non esente da forzature e passaggi più artificiosi, né la disomogeneità delle prove attoriali (non tutti gli interpreti risultano completamente spontanei e convincenti). Il maggiore difetto del film di Genovese risiede, a nostro avviso, nella sua difficoltà nell'adattare la fonte televisiva di partenza in un racconto cinematografico profondo e incisivo. Di rado i drammi morali dei personaggi si inoltrano nei territori dell'ambiguità o sono declinati in maniera più complessa e disturbante: al contrario, l'opzione binaria tra accettare o respingere le proposte del protagonista-demiurgo appare fin troppo 'semplice', tanto da scivolare in un innocuo manicheismo. E perfino le chiusure delle diverse sottotrame (senza svelare troppo) suonano spesso come soluzioni scontate e rassicuranti, rispondendo a una logica che preferisce aggirare il tema della sofferenza umana ricorrendo a qualche comodo deus ex machina.
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L'altra scommessa, altrettanto impegnativa, di un progetto quale The Place riguardava le caratteristiche della messa in scena, e in particolare l'obbligata 'staticità' di una pellicola contraddistinta da una dimensione fortemente teatrale: una scommessa rispetto alla quale la regia di Genovese non sempre si dimostra all'altezza, penalizzata anche dall'ingombrante accompagnamento musicale di Maurizio Filardo. Se il potenziale, insomma, non mancava di certo, e se il coraggio dell'operazione merita comunque di essere apprezzato, l'esito finale è ben lontano dal ritmo, dalla forza e dalla salutare 'cattiveria' di Perfetti sconosciuti, e a conti fatti segna un netto passo indietro rispetto al film precedente.
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Movieplayer.it
2.5/5