C'e qualcosa in questa casa... qualcosa di diabolico! C'è qualcosa che non ha... che non ha pace!
Se l'horror è uno dei generi cinematografici che hanno attraversato i cambiamenti più profondi fra un'epoca e l'altra, un film come The Others, al contrario, sembra non voler essere ricondotto a un periodo specifico. La ghost story di Alejandro Amenábar, con le sue ambientazioni a tinte gotiche e la sua forte impronta psicologica, potrebbe rientrare senza problemi nel novero di tanti classici della suspense degli anni Quaranta; al contempo, una certa modernità nello stile e nel modo in cui sceglie di rappresentare l'orrore rimanda direttamente agli stilemi del cinema più recente, e per diversi aspetti si pone da modello per tutto quel filone soprannaturale che, in seguito, avrebbe sfornato prodotti quali L'evocazione - The Conjuring e i suoi epigoni. Fatto sta che, vent'anni fa, The Others conquistava l'attenzione del pubblico e scriveva un nuovo, importante capitolo del cinema horror contemporaneo.
Non aprite quelle porte
Prodotto in Spagna e portato nelle sale americane il 10 agosto 2001 da una costola della Weinstein Company, la Dimension Films, specializzata in thriller e horror, The Others avrebbe registrato un enorme successo in tutto il mondo, con oltre duecento milioni di dollari d'incasso e circa quaranta milioni di spettatori. Un trionfo inedito per il regista e sceneggiatore Alejandro Amenábar, cileno nato a Santiago ma spagnolo da parte di madre, appena ventinovenne all'uscita della pellicola e con alle spalle un'opera, il thriller dai contorni sci-fi Apri gli occhi, che fra il 1997 e il 1998 si era rivelata un vero e proprio evento nell'ambito del cinema spagnolo. Per il suo terzo lungometraggio, il primo girato in lingua inglese, Amenábar può dunque permettersi di gestire un budget molto più elevato e di ingaggiare una star di prima grandezza quale Nicole Kidman, protagonista quello stesso anno del fortunatissimo musical Moulin Rouge!.
Ed è appunto lei, Nicole Kidman, attrice australiana che già da un decennio aveva incantato Hollywood, la colonna portante del film, raccontato principalmente dal punto di vista del suo personaggio: Grace Stewart, una giovane donna inglese che vive insieme ai figli, Anne (Alakina Mann) e Nicholas (James Bentley), in un maestoso maniero di campagna nell'isola di Jersey, lungo la costa normanna. L'anno è il 1945, la guerra in Europa si è appena conclusa e Grace, dopo la sconfitta e la ritirata degli occupanti tedeschi, vive aggrappandosi alla speranza di riabbracciare il marito Charles (Christopher Eccleston), partito per il fronte ma del quale ormai si sono perse le tracce. Nel frattempo i suoi bambini paiono affetti da una grave forma di fotosensibilità, che costringe Grace a tenere costantemente chiuse le tende e le porte del maniero per attutire il passaggio della luce del sole.
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Un nuovo "giro di vite"
È in questo sinistro scenario, immerso in una penombra perenne, che Alejandro Amenábar sviluppa il suo racconto di case infestate e presenze soprannaturali: un racconto giocato soprattutto sul "non visto" e sul "non detto" (una differenza sostanziale rispetto ai vari The Conjuring e simili), che rivista con intelligenza e originalità un grande modello letterario, Il giro di vite di Henry James. Nel capolavoro di James come nel film di Amenábar, infatti, una donna comincia a sospettare che una coppia di bambini sia sottoposta a un'oscura minaccia: un sospetto che, passo dopo passo, acquista sempre maggior consistenza, fino a trasformarsi in una logorante ossessione. Pur usando Il giro di vite come un semplice canovaccio, Amenábar ne coglie tuttavia una lezione essenziale: mantenere il più a lungo possibile il dubbio nella mente dello spettatore, facendo leva più sul potere della nostra immaginazione che non sugli effetti di una 'visibile' mostruosità.
E proprio in quest'ottica risulta fondamentale l'apporto di Nicole Kidman, che qui offre una delle migliori prove della sua carriera: una prova che non a caso, per intensità e forza espressiva, rievoca tante icone del noir classico. Dai primi minuti in scena, quando accoglie la governante Bertha Mills (una Fionnula Flanagan magnificamente ambigua) e gli altri domestici che si presentano alla sua porta, la Grace della Kidman è un fascio di nervi serrati dietro una maschera di autorità e di rigore. Alta e statuaria, Grace si aggira fra i corridoi e le sale del maniero con il piglio sicuro di una padrona di casa che detta regole ferree, tanto alla servitù quanto ai suoi figli. Eppure, la severità e l'enfasi con cui la protagonista si impone su questo microcosmo circoscritto tradiscono una sotterranea fragilità: la paura per l'incolumità di Anne e Nicholas e il dolore per l'assenza di Charles, accompagnato dalla consapevolezza che l'uomo potrebbe non fare più ritorno dalla sua famiglia.
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I sospetti di Grace
Perché The Others, e più la storia va avanti, più ce ne rendiamo conto, è anche un film sull'elaborazione del distacco e della perdita: un percorso accidentato, che Grace intraprende a passi incerti, privilegiando il suo ruolo di madre protettiva rispetto a quello di moglie afflitta. Ma il desiderio di preservare i suoi figli dalle aberrazioni del mondo esterno non sarà sufficiente a frenare l'angoscia per un orrore che, invece, pare annidarsi all'interno di quell'antica dimora. Ed è a questo punto che The Others diventa un magistrale ritratto della paranoia, secondo una tradizione che, partendo non a caso da Il giro di vite, passa per thriller d'annata quali Rebecca, la prima moglie di Alfred Hitchcock, Angoscia di George Cukor o Dietro la porta chiusa di Fritz Lang. Dal reciso rifiuto di ammettere l'esistenza dei presunti fantasmi avvistati da Anne all'atroce coscienza di un pericolo reale, Grace inizia ad affondare in un abisso di paranoia che si fa via via più spaventoso e feroce.
E contemporaneamente, Nicole Kidman ci mostra la progressiva perdita di controllo della donna: la sua recitazione assume non a caso toni sempre più accesi e vibranti, a tratti quasi al limite dell'isteria, ma ci suggerisce anche lo sforzo di Grace di conservare il dominio dello spazio fra le pareti del maniero. In Grace, in pratica, si consuma un conflitto devastante fra la volontà di aggrapparsi alle proprie certezze, a partire da quelle offerte dall'unità familiare, e il terrore di abbandonarsi al dubbio e di mettere in discussione la realtà... in altre parole, di lasciare che la luce trapeli finalmente dalle finestre della casa. Un conflitto destinato a trovare una risoluzione, o perlomeno un compromesso, in un epilogo memorabile, scandito da un colpo di scena tanto 'semplice', quanto folgorante per il modo in cui riesce a farci riconsiderare l'intera narrazione da una nuova prospettiva. Come solo certi grandi racconti sono in grado di fare.