Nelle tante conferenze in giro per le università tenute da Antonio Barbero, lo storico è spesso sollecitato dalle domande degli studenti riguardo l'attuale scenario geopolitico mondiale, che, lo sappiamo tutti quanti, non è certo costellato da avvenimenti che fanno sperare per un futuro migliore. In una recente, nello specifico in veste di ospite alla Festa Internazionale della Storia a Bologna, nell'ambito della rassegna "La Storia ci appartiene", egli ci ha tenuto ad indicare come una delle origini dell'incapacità di orientarsi nella realtà contemporanea sia l'assenza generale di una vera e propria memoria storica (qui il video dell'intervento a cui facciamo riferimento).
Come se negli ultimi anni ci fosse stata una sorta di reset nell'immaginario collettivo. L'idea romantica di un nuovo mondo successivo alla fine della Guerra Fredda dove poter ripartire insieme (per insieme si intende mondo occidentale) che se da una parte può essere un'immagine meravigliosa in cui si pensava che le divisioni del passato potessero essere messe da parte, dall'altra rischia di spingere a dimenticare, come sottolinea giustamente Barbero, che per comprendere le ragioni di conflitti e separazioni odierne bisogna tornare ad esso. Luogo nel quale, tra l'altro, è anche possibile trovare motivi di vicinanza, persino tra popoli oggi apparentemente inconciliabili.
The Old Oak (qui la nostra recensione), l'ultimo, bellissimo, film di un cineasta importantissimo come Ken Loach parla anche di questo. Al di là della natura militante che ha sempre mosso il suo cinema (quella che porta alla denuncia del razzismo, le speculazioni commerciali, l'abbandono politico di una zona del Paese) il film è straordinario nel lavoro di sfumatura tra la dimensione teorica del suo intreccio, utile per il messaggio da veicolare, e quella umana, riuscendo ad allargare lo sguardo al punto da rendere universale il microcosmo del "villaggio" inglese dove la vicenda si svolge, pur rimanendo sempre attaccato alla sua realtà.
Una capacità straordinaria di coinvolgere tutti, avvicinando due personaggi all'inizio concettualmente agli antipodi che, oltre il (buon) senso civile che è alla base dell'accoglienza, trovano nelle loro storie personali e in quelle delle rispettive comunità di appartenenza una via per parlarsi, a differenza degli altri, i quali si rifiutano di accettare la responsabilità (perché alla luce degli strumenti che abbiamo, non si può non parlare di "responsabilità") di essere custodi di una, appunto, memoria storica.
Un occhio in grado di allargare l'orizzonte
Le origini del successo della sceneggiatura di The Old Oak sono da ricercare, come abbiamo detto, nella sua capacità di riuscire a coinvolgere qualsiasi tipo di spettatore proveniente da ogni parte del mondo senza ricorrere a soluzioni prettamente da fiction, rendendo la vicenda troppo schematica o didascalica, evenienza che potrebbe sfavorire la componente empatica. Abilità che non può prescindere dall'esperienza personale ed è infatti legata a filo doppio con il vissuto della sua penna, che è poi la penna di fiducia di Ken Loach (la stessa che ha scritto suoi nove lungometraggi e due cortometraggi), ovvero Paul Laverty, che oltre ad essere un avvocato e quindi una persona formata in materia civile e sociale, è anche un uomo che ha vissuto una gran parte della sua vita come "immigrato", al di fuori del contesto della sua famiglia di origine.
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Laverty nasce a Calcutta, in India, da madre irlandese e padre scozzese, si laurea prima all'Università Gregoriana di Roma e dopo presso la Strathclyde Law School di Glasgow. Finiti gli studi lavora per diversi anni in Nicaragua per un'organizzazione a favore dei diritti umani, tra l'altro molto importante durante il conflitto tra i Sandinisti e i Contras. Solo dopo il soggiorno successivo, in America Centrale, Laverty entra in contatto con Loach. Questo enorme bagaglio ha permesso all'uomo di entrare in prima persona dentro le logiche sociali che muovono la massa, la collettività, che spesso vede tutto ciò che esula da loro stessi come un nuovo ostacolo con cui dover fare i conti prima di tutto perché in sofferenza a causa della mala gestione del governo autoctono.
Analisi sociale che trova il suo compimento in quella della Storia di ognuna della realtà che Laverty ha incontrato, all'interno delle quali si possono rintracciare non solo motivi o spiegazioni che hanno diviso i popoli, ma anche quelle che li possono accomunare. A patto che non si decida di trincerarsi dietro il solo ricordo dei primi. Delle volte i punti di incontro sono così validi da non avvicinare semplicemente i vissuti collettivi o comunitari, ma da portare le esistenze delle singole persone a specchiarsi l'una nell'altra, creando una simbiosi tale da farci capire come in fondo c'è sempre un modo di entrare in contatto con lo straniero, capirne le logiche, le sofferenze e i perché. Una simbiosi che spesso non si riesce a creare neanche, come dice tra l'altro esplicitamente The Old Oak, con i propri vicini di casa, ex compagni di scuola o avventori da 40 anni del proprio pub.
La memoria storica può essere un terreno comune per parlare con l'altro
L'intero impianto del film di Loach è pensato un po' come un archivio. Una sorta di museo per la conversazione dinamica di storie, in cui il passato comunica con il presente e determina un futuro che parte dalla relazione interindividuale e poi intercomunitaria. La funzione stessa del pub, l'"Old Oak", è quella di un ponte generazionale e tra popoli diversi che riprende vita, forza e scopo proprio dalla volontà di interfacciarsi con l'altro.
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La macchina fotografica che si rompe a seguito della collisione tra due popoli è la rottura di uno strumento in grado di conservare un ricordo, una memoria, tant'è che nella sua riparazione c'è la metafora del risanarsi di una frattura tra due memorie storiche. La scena del primo incontro tra Yara e T.J. arriva proprio davanti ad una mini mostra fotografica in cui il cinema, ridotto alla sua essenza tecnica, ovvero la fotografia, dimostra la sua capacità di mantenere intatta la vita e la storia di una comunità. Lì c'è il terreno comune dove un britannico di mezza età riesce a capire una giovane rifugiata siriana.
In uno schema che lavora per sovrastrutture (cosa che capita spesso a Loach) e dove diventa anche comprensibile che i personaggi divengano solo figure funzionali all'ingranaggio politico in cui sono inseriti, The Old Oak sorprende, trovando una dimensione prettamente umana. Il ricordo dell'importanza del recupero della nostra memoria, che si estende alle nostre radici e a quelle dei nostri cari, diventa un invito a ricorrere ad un pensiero complesso, più faticoso, che oggi viene fagocitato dall'immediatezza di dover prendere una posizione a scapito di una inevitabile confusione dove le bandiere sorgono quasi per la necessità di orientarsi. Un cinema di riscoperta per generare un confronto oggi è il più utile che ci sia.