In the arms of the angel fly away from here/ From this dark cold hotel room and the endlessness that you fear
"Only connect", è il celebre motto riportato da Edward Morgan Forster in apertura del suo capolavoro Casa Howard. Basta connettersi gli uni agli altri: una connessione che può essere espressa mediante il concetto di empatia, ma anche attraverso declinazioni più complesse e sfumate. Ed è una forma di connessione che sfugge alla razionalità umana, ma dimostra una forza innegabile, quella che si instaura fra la protagonista eponima di The OA e cinque individui molto diversi l'uno dall'altro.
Il rapporto fra Prairie Johnson, la quale si fa chiamare appunto OA (il significato dell'acronimo lo scopriremo solo in seguito), quattro studenti del liceo locale e una professoressa costituisce il fulcro narrativo della nuova serie diffusa da Netflix lo scorso 16 dicembre: quasi senza preavviso, con pochissime informazioni a disposizione e un'aura di mistero che, in pochi giorni e grazie all'effetto del passaparola soprattutto tramite i social newtork, ha trasformato un prodotto pressoché sconosciuto nell'ultimissimo must watch in grado di suscitare accesi dibattiti e di polarizzare le opinioni. Una strategia rischiosa, ma probabilmente assai azzeccata per lanciare una serie non solo di ardua catalogazione, ma che sulla propria natura 'misteriosa' fa leva al massimo grado per offrire al pubblico una fruizione decisamente sorprendente. A visione ultimata, dunque, proviamo a fare chiarezza su quanto ci è stato raccontato in The OA (da qui in poi, dunque, preparatevi a qualche spoiler) e sul perché la nuova serie Netflix sia riuscita ad irretirci in misura così ampia.
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Il mistero di Prairie
Homecoming, l'episodio pilota di The OA, ci presenta subito il 'giallo' al cuore della serie: l'improvvisa ricomparsa di Prairie Johnson, una giovane donna cieca che era svanita nel nulla sette anni prima. I suoi genitori adottivi, Abel e Nancy, sono felicissimi di riabbracciarla, ma in questi sette anni Prairie, alias OA, ha subito un singolare cambiamento: ha riacquistato la vista. È il primo evento inverosimile, in altri termini il primo "atto di fede" richiesto al pubblico da una serie per la quale la sospensione dell'incredulità è un'inevitabile condicio sine qua non. Pur non sconfinando esplicitamente nei territori del fantastico, The OA ci pone infatti davanti alla necessità di mettere da parte lo scetticismo per aprirci al dubbio e all'imprevisto: un imperativo che come vedremo The OA, proprio per bocca della sua protagonista, ci riproporrà con forza sempre maggiore nel corso delle otto puntate.
La protagonista, figura chiave dell'intera storia, ha il viso diafano di Brit Marling, trentatreenne di Chicago, interprete e sceneggiatrice al cinema di un'ideale trilogia composta da Another Earth, Sound of My Voice e The East, e creatrice lei stessa di The OA in coppia con il suo fedele collaboratore, il regista Zal Batmanglij. Un sodalizio già consolidato da cinque anni e che in casa Netflix ha trovato un terreno fertile e una libertà creativa tutt'altro che scontata: quella libertà creativa in funzione della quale la serie ha la possibilità di intraprendere percorsi del tutto inaspettati. È così che, fin da Homecoming, a un tratto la narrazione si biforca su un duplice piano: quello più 'reale', che vede Prairie tentare faticosamente di reintegrarsi nella quotidianità della vita che aveva condotto fino a sette anni prima, e quello evocato in flashback dalla voce della ragazza.
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Il potere del racconto: OA come Sherazade
Se il comportamento bizzarro e le frasi apparentemente sconnesse di Prairie provocano stupore e disagio nei suoi genitori, un insospettabile legame si crea invece fra la donna e Steve Winchell, adolescente sociopatico, con disturbi psichici che sfociano in incontrollate esplosioni di violenza. Steve, impersonato dall'attore irlandese ventunenne Patrick Gibson, avvertirà un'istintiva fiducia nei confronti di Prairie/OA, compiendo dunque quell'atto di fede necessario anche per noi spettatori: abbandonare ogni scetticismo per immergersi nel racconto di OA. Un racconto che, oltre a Steve, avrà altri quattro fedelissimi ascoltatori: i suoi compagni di scuola Alfonso, Jesse e Buck (un ragazzo transgender per il quale è stato scelto un interprete transgender, l'esordiente Ian Alexander) e la professoressa Betty Broderick-Allen, dotata di una peculiare sensibilità (nel suo ruolo l'attrice Phyllis Smith, voce di Tristezza nella versione originale di Inside Out).
Sera dopo sera, nella penombra di una stanza spoglia, questi cinque individui si lasceranno incantare dalle parole di OA, novella Sherazade che, fin da Homecoming, prenderà in contropiede tanto loro, quanto noialtri di fronte allo schermo: perché dalle memorie di OA (memorie o pura affabulazione?) assumerà forma una storia assolutamente surreale, onirica, a tratti addirittura visionaria, che rielabora al proprio interno elementi presi in prestito dall'iconografia della Principessa Anastasia Romanov e una dimensione mistica relativa alle cosiddette NDE, le near death experience. Quello che si configurava come un mystery thriller dal taglio psicologico assume così traiettorie differenti, in un gioco narrativo (e metanarrativo) che mira a incrinare di puntata in puntata tutte le nostre certezze, attraverso un approccio tanto audace quanto encomiabile; a patto, appunto, di voler credere anche noi al racconto di OA.
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L'indefinibile fascino di un UFO televisivo
A nostro avviso, in questo aspetto risiede la principale ragione di fascino di The OA: la sua imprevedibilità. È anche il motivo per cui la condizione ideale per fruire della nuova serie Netflix è disporre del minor numero possibile di informazioni al riguardo: The OA è una sorta di UFO, un oggetto non identificato che cambia forma e direzione ad ogni episodio, scoprendo con gradualità le proprie carte e lanciando diverse domande sulla natura dei rapporti fra i personaggi. Nello specifico è il terzo episodio, Champion, ad aprire un nuovo scenario in merito ai flashback di OA: da lì inizia infatti la cronaca della sua prigionia nell'inquietante laboratorio del dottor Hunter Aloysius Percy, impersonato da Jason Isaacs. Una prigionia le cui dinamiche saranno svelate poco alla volta, mentre assumerà sempre maggiore complessità il rapporto fra OA, il suo ambiguo carceriere (tutt'altro che il canonico villain ammantato di perfidia) e uno dei suoi "compagni di cella", il giovane Homer Roberts (Emory Cohen, l'attore del film Brooklyn).
A suscitare qualche sospetto di fronte a The OA, più che lecito, potrebbe essere il suo 'rivestimento' di misticismo e filosofia new age, difficile da prendere sul serio, ma bisogna fare attenzione: The OA non ci chiede di essere accettato come un racconto realistico (sta a noi, del resto, credere o meno alla versione dei fatti riportata dalla protagonista) o come una sorta di pamphlet, quanto piuttosto come riflessione più ampia sul ruolo di una dimensione trascendente nella concreta immanenza delle nostre vite quotidiane. Qual è il confine tra fede e illusione? Fino a che punto si è disposti a spingersi pur di mettere alla prova il proprio potenziale? E in che modo la nostra connessione con altri esseri umani può determinare un effetto salvifico per noi stessi e per gli altri? La serie della Marling non risolve tali interrogativi (non del tutto, almeno), ma usa il potere dello storytelling per evocare suggestioni e dubbi e, soprattutto, per suscitare la nostra empatia nei confronti di OA e dei suoi 'seguaci': individui emarginati, solitari, in qualche caso perfino disadattati, i quali nel fascino per la pura narrazione - in quell'atto di fede di cui sopra - troveranno un mezzo, se non altro, per sperare di sentirsi meno soli. C'è forse qualcosa di più prezioso?