È una storia che mette i brividi quella che stiamo per raccontare nella nostra recensione di The Mauritanian. Si tratta di una storia vera (come la didascalia iniziale del film tende subito a sottolineare) tratta da un libro di memorie del protagonista che dà titolo al film e pubblicata anche in Italia con il titolo di 12 anni a Guantánamo. La storia è quella di Mohamedou Ould Slahi, imprigionato per anni nel campo di prigionia cubano, torturato e seviziato, senza un processo o una reale accusa. È chiaro che, sin a partire da queste poche righe, si capisce subito il tono del film di Kevin Macdonald. Il regista premio Oscar per il documentario Un giorno a settembre si avvale di un quartetto di interpreti d'eccezione per portare in scena un film di denuncia sul sistema giuridico americano, capace di stimolare riflessioni non soltanto sulla vicenda in sé ma anche sulla nostra umanità. Il risultato è un film che, seppur fin troppo legato ai modelli di certo cinema americano di denuncia degli anni Settanta, trova parecchi punti di forza. Disponibile su Prime Video dal 3 giugno.
Lottare per la giustizia
Ci sono casi giuridici che esulano dai singoli individui e si trasformano nello specchio di ciò che non funziona nel sistema. È quello che accade con il caso di Mohamedou Ould Slahi che l'avvocatessa Nancy Hollander sta seguendo. Slahi è da anni imprigionato nel campo di prigionia di Guantánamo senza una vera accusa a suo carico. Pare che sia uno dei responsabili dell'11 settembre, che sia colui che ha reclutato i terroristi che hanno poi dirottato gli aerei contro le Torri Gemelle, ma non si hanno prove certe. Tuttavia, da quando nel novembre 2001 viene preso dalla polizia locale della Mauritania, uno Stato a nord-ovest dell'Africa, Slahi è costretto a passare il resto dei suoi giorni in prigione. Fino ad arrivare nel 2005 quando Slahi potrebbe diventare un buon capro espiatorio per "dare un esempio" ed essere condannato a morte. La storia è raccontata attraverso due punti di vista, quella della difesa e dell'accusa. Nancy Hollander e la sua assistente Teri Duncan (Shailene Woodley) dovranno cercare di dimostrare l'innocenza del loro cliente, un'impresa visto che molte testimonianze sono redatte e cancellate; nel mentre, il colonnello Stuart Couch (interpretato da Benedict Cumberbatch) dovrà cercare le prove che garantiscono l'appartenenza di Slahi al gruppo di Al-Queda. Anche per lui, però, proprio a causa dei metodi utilizzati a Guantánamo, le cose non saranno facili.
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Uno scontro per un risultato
C'è uno scontro ideologico alla base di The Mauritanian ovvero la lotta tra la giustizia, quella che l'America dice di volere, e quella della vendetta personale. Il ritratto del mondo giuridico che viene descritto è quello di un sistema che, nonostante si definisca al di sopra delle parti e vicino a Dio, si piega in base agli uomini che se ne fanno portavoce. È persino sin troppo didascalico il modo in cui vengono presentati i personaggi e gli attori che li interpretano. Dalla parte della giustizia abbiamo Jodie Foster e Shailene Woodley, due donne forti e con la carriera avviata, che vengono portate in scena con un certo calore: non solo per il modo in cui le due attrici, nonostante la scorza dura, hanno modo di dimostrare la loro sensibilità, ma anche per la scelta fotografica che accompagna le loro scene. I loro volti sono illuminati da tonalità calde (che sia il sole o le lampadine dell'ufficio) rendendole umane. In tutt'altro modo viene raffigurato Stuart Couch: freddo, chiuso nella sua divisa e con il repertorio espressivo da cinico e calcolatore a cui Benedict Cumberbatch ci ha abituato. Il vero fuoriclasse, però, è Tahar Rahim che interpreta Slahi. L'attore non solo deve misurarsi con un personaggio complesso e sfaccettato, provato sia nel corpo che nella mente, ma deve anche compiere il miracolo di arrivare con tutta la sua emotività allo spettatore affinché si crei un legame empatico che possa sorreggere l'intero film. Non a caso, le sequenze migliori del film si basano sull'interpretazione di Rahim, a volte con il semplice utilizzo del corpo e altre attraverso la parola recitata.
Dalla prigione alla libertà
Come il protagonista della storia, anche il film sembra cercare, per gran parte della sua durata, una via di fuga dalla prigionia che si autoimpone. Per gran parte del tempo, The Mauritanian sembra imprigionato quanto Slahi in una gabbia formale a cui non riesce a fuggire. Nel modo in cui la storia viene raccontata, nell'assenza di vere e proprie scelte registiche, si ha spesso l'impressione di un film fuori tempo massimo, più interessato a riepilogare le vicende che a raccontarle. Un esempio su tutti: per una lotta così lunga spiace constatare che non si riesca a percepire il tempo che passa. Il film inizia nel novembre 2001 per concludersi nel 2010 (e oltre), ma riusciamo a capirlo solo attraverso le didascalie, a tratti ingombranti, che ne scandiscono il passaggio del tempo. È un film che sembra accontentarsi del risultato prendendo alcune scorciatoie che ne depotenziano la forza: il finale perfettamente appartenente al linguaggio cinematografico, con un taglio di montaggio davvero potente, viene messo in secondo piano dalle lunghe didascalie finali che fanno rientrare il film in una più classica canonicità. Eppure, soprattutto nella seconda metà, il film riesce a mostrare gli orrori di Guantánamo in maniera originale, spezzando quella classicità che fino a quel momento (compresi i flashback in 4:3 del protagonista) incatenava la storia. Il risultato è un film che funziona e sa coinvolgere, più per la storia vera che può interessare lo spettatore, che per veri meriti cinematografici, ma che riesce a regalare anche un ottimo momento finale che prova a riscattare tutto il resto.
Conclusioni
Concludiamo la nostra recensione di The Mauritanian sottolineando come il film di Kevin Macdonald appartenga a una tipologia di film più interessanti al didascalismo e alla storia vera più che al racconto attraverso il linguaggio cinematografico. Non è un film particolarmente originale, ma riesce a coinvolgere lo spettatore proprio grazie alle tematiche affrontate e a un quartetto di attori ben inseriti. Non mancano i momenti più riusciti che non lasciano indifferenti, anche se per la maggior parte il film sembra basarsi più su modelli classici che risultano, a tratti, fuori tempo massimo.
Perché ci piace
- La storia vera è l’occasione per denunciare ciò che non funziona nella giustizia americana.
- Il cast funziona e il talento di Tahar Rahim è da vedere.
- Non mancano i momenti più riusciti e coraggiosi…
Cosa non va
- …ma il film si lega troppo a un certo modo di raccontare che preferisce la didascalia rispetto al piacere del racconto.
- Lo scontro ideologico e lungo anni della vicenda non sempre si percepisce al meglio.