Il fandom di Star Wars si divide in due tipologie di appassionati: chi rispetta religiosamente la saga ideata da George Lucas con fede e devozione e chi, invece, qualche domanda rispetto al corso degli eventi del franchise, in un modo o nell'altro, ha cominciato a porsela. Che Star Wars sia un'IP mainstream è cosa riconosciuta e ovvia: è nata da un'idea di cinema di genere popolare e votata anche alla messa in circolo di merchandising, dunque con scopi commerciali e destinata alle masse, non ai cinefili.
Ciò detto, i livelli di amore, passione e ricercatezza riversati nella costruzione della prima e mitica trilogia non sono stati più raggiunti né con la trilogia prequel né tantomeno con la nuova, che a parte qualche ingegnosa trovata concettuale di Rian Johnson è stato forse il punto più basso di Star Wars in generale. Pure se Rogue One: A Star Wars Story di Gareth Edwards riusciva nel 2016 a dimostrare che il franchise poteva esistere al cinema anche senza gli Skywalker, ampliando di fatto universo, storie, personaggi e ambientazioni, è in realtà The Mandalorian che tre anni dopo sanciva la nuova e migliore direzione da dare allo stesso, aprendo per la prima volta l'IP al panorama della serialità live-action e portando nelle Guerre Stellari qualcosa di concretamente nuovo e diverso.
Uno sguardo differente
La serie ideata da Jon Favreau ha il merito di aver dato al franchise un respiro differente, uno storytelling interamente ideato per il piccolo schermo e un racconto slegato dove e quando possibile dalle dinamiche della saga principale, al netto di essenziali e richiesti cameo e connessioni di varia natura. Un qualcosa che tra streaming e tv, per Star Wars, non si era davvero mai visto prima in formato live-action, trasportando la magnificenza della Galassia Lontana Lontana dal cinema allo streaming con gli stessi valori produttivi. Certo, in passato tanto The Clone Wars quanto Rebels si erano addentrate con successo in un territorio animato distante dal grande schermo (pure se la prima è venuta dopo l'omonimo film d'animazione per il cinema), eppure restavano fin troppo centrali gli eventi della saga cinematografica, anche se Rebels si aprì a un distacco contenutistico molto più marcato rispetto alla collega.
Per quanto appassionanti e ben realizzate, comunque, le due serie animate erano pensate per attirare fan e un pubblico più giovane, essendo l'animazione televisiva una categoria purtroppo ancora oggi non apprezzata o seguita con estrema costanza dal pubblico di massa. The Mandalorian ha invece tradotto in un media differente e con sguardo più ricercato la stessa potenza visiva, lo stesso amore e la stessa passione che si respiravano all'inizio delle Guerre Stellari, nel lontano 1977. Innanzitutto introducendo un nuovo e carismatico protagonista quale poi è Djin Djarin (Pedro Pascal), ma poi addentrandosi in una complessa operazione d'espansione dedicata a un bounty hunter e un cargo inaspettato, così come le emozioni al seguito.
Si parte poi da un personaggio sostanzialmente mercenario, né buono né cattivo, perché plagiabile e di grande potenziale evolutivo ma anche involutivo, dando inoltre tratti spesso unici a ogni episodio, con qualcosa di sempre diverso da raccontare. Questo ha spinto The Mandalorian a camminare prima sulle proprie gambe e poi a riconnettersi con le dovute motivazioni alle fondamenta della saga, mostrando pure notissimi personaggi dell'universo starwarsiano come Ahsoka, Boba Fett o Luke Skywalker. In pratica, si è distinta prima di unificarsi, per tornare poi a distinguersi ancora con un processo di rielaborazione narrativa che ha saputo rimettere nuovamente al centro del discorso Djin e il credo mandaloriano.
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Tra oriente e occidente
Ciò che ha dato valore aggiunto a The Mandalorian è stata anche la qualità ispirazionale di genere e un taglio cinematografico tra oriente e occidente. Dopo lo show ci ha pensato anche la strepitosa Andor a ragionare concettualmente su qualcosa di strutturalmente raffinato, ma The Mandalorian ha sicuramente aperto la strada. Quello che mancava ad esempio alla trilogia prequel e alla nuova era la visione del passato, in quanto la prima appariva estremamente intessuta d'intrighi politici, mentre la seconda fin troppo slegata stilisticamente da un capitolo all'altro (tra remake non dichiarati ed esasperata autorialità). Sia una che l'altra hanno insomma mancato d'equilibrio, di quella grande capacità di essere insieme popolari, apprezzati e di qualità (al netto di un paio di momenti sicuramente memorabili).
Cercando di rispettare la propria dimensione artistica e una visione narrativa inedita per la saga, la serie di Favreau ha saputo condensare insieme ispirazioni cinematografiche western e giapponesi, esattamente come fece inizialmente Lucas per il primo Star Wars. Se infatti buona parte di The Mandalorian presenta cacciatori di taglie, musiche e ambienti che richiamano alla mente le sensibilità di genere tra Pekimpa e Leone - con tutte le dovute differenze -, altro evidente richiamo è al filone della road story tra un adulto e un bambino, tra protettore e protetto. Tra La Strada di Cormac McCarthy_ e The Last of Us, questa tipologia di racconti ha riscontrato un successo sempre più clamoroso tra il grande pubblico, rendendolo richiesto.
Il primo vero e importante esponente di questa sorgente narrativa è però stato senza dubbio Lone Wolf and Cub di Kazuo Koike, un manga cosiddetto gekiga (temi maturi in un dipinto drammatico di stile cinematico) tra i più seminali di sempre. Ebbene, proprio come Lucas guardò a La fortezza nascosta di Akira Kurosawa per Episodio 4, così Favreau ha strizzato l'occhio ancora una volta al Giappone per ritrovare un quel equilibrio formale e contenutistico che per troppo tempo ha latitato in Star Wars (eccetto Rogue One, lo ripetiamo), soprattutto spostandosi su di una lettura trans-mediale del franchise, rendendo The Mandalorian un vero e proprio progetto di ridefinizione e rilancio dell'IP.
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