Ideale prosecuzione del precedente The Act of Killing - L'atto di uccidere, e altrettanto sconvolgente nel raccontare una pagina di storia in larga parte taciuta dalle cronache, The Look of Silence ha raggiunto con merito la vetrina del concorso veneziano. Il documentario di Joshua Oppenheimer è un'immersione durissima, senza compromessi, nel dolore dei superstiti di uno dei più grandi (e colpevolmente taciuti) genocidi del secolo scorso: il massacro, nell'Indonesia del biennio 1965-66, di circa un milione di sospetti comunisti durante la dittatura del generale Suharto.
Da più di un decennio interessato al tema, Oppenheimer si è qui avvalso della collaborazione del fratello di una vittima, il quarantaquattrenne Adi, per intervistare superstiti e carnefici; nella ricerca (vana, ma non per questo meno importante) di una spiegazione, di un segno di ravvedimento, o comunque di umanità, negli aguzzini di allora. Un lavoro che, se per l'Indonesia attuale vuole essere propedeutico a una presa di coscienza di un passato sanguinoso, recente quanto rimosso, per il resto del mondo segue l'urgenza di raccontare, e di squarciare il velo di quel silenzio che per troppo tempo ha avvolto questa tragedia. Del film, della sua genesi e delle istanze, politiche e umane, che l'hanno originato, ci ha parlato lo stesso regista, in un incontro ricco di spunti di riflessione.
Due opere complementari
Come mai ha voluto approfondire ulteriormente gli anni della dittatura indonesiana, dopo l'esperienza di The Act of Killing?
Joshua Oppenheimer: Finito di girare The Act of Killing, mi sono posto una domanda: cambiando la prospettiva, mi sono chiesto com'era la vita dei sopravvissuti, di quelli scampati al genocidio e dei parenti dei morti. Come sarebbe stato vivere nell'ombra degli eventi occorsi in quei due anni, e nella vicinanza con gli assassini? Da questa domanda è nato The Look of Silence.
A differenza di quanto accade con Anwar Congo in The Act of Killing, nei perpetratori qui non c'è nessun segno di ravvedimento. Perché, secondo lei?
In realtà, le scuse a un certo punto arrivano: sono quelle della figlia di uno dei criminali, verso la fine. E' proprio ciò che io cercavo, e alla fine è successo. Ma io volevo che tutti i perpetratori si sentissero colpevoli: la follia è stata collettiva, e anche l'ammissione di colpa dovrebbe esserlo. Ma noi vediamo in queste persone una doppia paura: quella della giustizia, e soprattutto quella del confronto con la propria coscienza. Anwar, alla fine di The Act of Killing, è stato costretto a realizzare l'orrore di ciò che aveva fatto, nonostante si fosse sforzato fino all'ultimo di non farlo.
Nel film, uno degli intervistati dice che il rischio è che un evento del genere possa ripetersi. Lo crede anche lei?
Finché manca la consapevolezza di ciò che è davvero accaduto, questo rischio c'è. Quello che abbiamo ora è un vuoto morale. The Act of Killing era la rappresentazione di un'intera società fondata su una bugia. E' inevitabile che ci sia il crimine, finché c'è totale impunità per i suoi perpetratori.
Il rischio di esporsi
Nei titoli di coda, molti collaboratori del film sono segnalati come Anonymous. Le persone coinvolte rischiano davvero, contro il potere politico attuale?
Sì. Gran parte della troupe è rimasta anonima per proteggere la sua sicurezza, per tutte le persone coinvolte c'è un gravissimo rischio da parte delle autorità, e soprattutto dai militari. Anche Adi è esposto a un grande rischio: la sua famiglia ha dovuto spostarsi a molti chilometri da casa, visto che erano circondati dai perpetratori del crimine contro il fratello. Questa è la prova che non molto è cambiato in Indonesia dagli anni della dittatura: speriamo che il film possa servire in questo senso.
Com'è entrato in contatto con Adi?
L'ho incontrato più di un decennio fa, a causa dell'assassinio del fratello avvenuto anni prima, insieme a quello di molti altri membri del villaggio. C'erano dei testimoni, che sono stati minacciati dai militari. Parlare della morte significa ripristinare la salute mentale, in un mondo che è pieno di follia. Adi non aveva la stessa paura che avevano gli altri, perché era nato dopo la morte del fratello: non aveva esperienza diretta di quegli eventi. Anche lui, dopo il film, ha ricevuto delle minacce, e ha iniziato a capire perché c'era questa paura che serpeggiava: ma è stato lui a spingere la sua famiglia a continuare nella denuncia.
C'è stata reazione ufficiale da parte di governo indonesiano?
Il governo non è molto consapevole di questo film. Ora la gente andrà a vederlo, proprio perché è stato presentato qui a Venezia. Già The Act of Killing era stato mostrato clandestinamente molte volte: ha aperto un dibattito, ma il governo ha fatto di tutto per ignorarlo, fin quando non è stato nominato per gli Oscar. A quel punto, non hanno potuto più ignorarlo: sono arrivati a dire che quanto era accaduto nel passato era sbagliato, e che erano pronti a una riconciliazione, ma coi loro tempi. In passato, il governo non aveva fatto che celebrare il genocidio come qualcosa di eroico. Ora sono stati costretti ad ammettere che si è trattato di un errore: è stata solo una questione di opportunità, ma è già qualcosa.
Riconciliazione e verità
Nel film c'è anche il dialogo con un bambino. Come viene trattato l'argomento nelle scuole indonesiane?
Tuttora, si dice ai bambini che le vittime si sono meritate la loro sorte, che il massacro è un evento da celebrare. Ma, ora che il governo ha ammesso invece che si è trattato di un errore, qualcosa dovrà cambiare. Questa contraddizione non potrà reggere a lungo.
Com'è, ora, la situazione politica indonesiana?
Quella indonesiana è una cultura molto dinamica, è da lì che proviene la mia intera crew. Ora hanno appena eletto un nuovo presidente, Jokowi: uno apparentemente al di fuori dell'oligarchia, che ha detto che vuole fare dei diritti civili una priorità. Tuttavia, io non lo vedo come un salvatore, visto che, tra l'altro, si è circondato di personaggi compromessi con la dittatura. Diciamo che sono realisticamente pessimista, ma ho comunque speranza.
Durezza e poesia
Nonostante la durezza del tema trattato, nel film ci sono immagini molto poetiche. Come mai questo contrasto tra la bellezza visiva e la crudezza dei temi?
Volevo immergere lo spettatore nel silenzio in cui i sopravvissuti costruiscono la loro vita, circondati dai criminali. Volevo raccontare l'atrocità, ma inserire anche un elemento di ottimismo. Mi interessava che ci fosse una pausa, per restituire dignità a quelle vite che sono state spezzate; come fermarsi e guardare da vicino il silenzio che segue l'atrocità.
Nel film si avverte una notevole delicatezza nell'affrontare il tema. Ci sono state scene che non ha voluto mostrare, nel montaggio finale?
No, niente del genere: se avessimo notato che il potere emotivo di certe riprese era eccessivo, non le avremmo mostrate. Il rispetto e la dignità percorrono tutto il film, sono i punti fermi da cui siamo partiti.
Ha lavorato Indonesia per più di 10 anni. Volterà pagina, ora?
Questo è un tema che si è impadronito di me: è un "episodio" della mia carriera che ormai dura da più di 10 anni. Ma ora sento che mi sta lasciando andare: so che mi mancherà l'Indonesia, visto che la troupe è diventata come la mia famiglia. Ma ora andrò avanti, e forse userò gli stessi metodi che ho appreso lì, in contesti diversi.