Solita, vecchia, noiosa faccenda: esce una serie tratta da un libro, da un fumetto o da un videogioco (come in questo caso) e giù di commenti da parte dei fan, che partono dalla prerogativa scontata che l'opera originale sia sempre e comunque migliore del suo successivo adattamento. Un rumore di fondo e un'inflazionata diffidenza. La proprietà intellettuale - di cui gli stessi fan si fanno sospettosi scudieri - e la sacrosanta novellizzazione di un autore. Al centro, sempre e comunque la libertà intellettuale, che ha l'ardua missione di non snaturare la visione personale dello sceneggiatore, mentre l'ispirazione nativa muta forma in un linguaggio diverso, che mai sarà totalmente fedele allo spunto di partenza - i copia-e-incolla lasciamoli ai fan movies. Ragionamento forse scontato, ma essenziale per vivere in modo equilibrato l'entertainment, senza scendere in fazioni di pensiero perlopiù ridicole.
Compreso questo, superando quindi i dogmi di un certo pubblico radicalizzato nell'idea confusa che un videogame o un libro non possano prendere la via del cinema o della serialità, si acquista la giusta leggerezza nell'affrontare (e come richiesto, spiegare e giudicare) il panorama post-apocalittico di The Last of Us, serie in nove episodi targata HBO, disponibile su Sky e in streaming solo su NOW. Uno show che, probabilmente, non ha bisogno di troppe presentazioni, essendo tratto da uno dei videogiochi più amati e applauditi della storia, tant'è che dietro c'è proprio Neil Druckmann, colui che ha scritto e co-diretto il gioco prodotto da Naughty Dog per PlayStation, insieme a Craig Mazin, sceneggiatore di un'altra (grande) serie dalle sfumature post-apocalittiche, Chernobyl.
Una grande serie, anche senza conoscere il gioco
Un viaggio, quello di The Last of Us, meravigliosamente organizzato per essere il più possibile impressivo, biforcandosi in un doppio e parallelo approccio: quello rivolto a chi conosce il videogioco, e quello rivolto a chi non lo conosce. Ecco, chi sta scrivendo rientra quasi pienamente nel secondo insieme: conosciamo a grandi linee la storia, i protagonisti e il gameplay ma non molto altro. Pochi ingredienti che potrebbero equivalere alla copertina di un libro, e che hanno di conseguenza reso la visione della serie interamente avulsa da qualsivoglia paragone. Una cognizione, come detto, decisamente più leggera e spassionata, al netto di quanto la serie tv sia una delle più crude ed emotivamente coinvolgenti del momento: un mondo distrutto da un fungo, l'umanità a brandelli e la speranza racchiusa (e rinchiusa) in una ragazzina di quattordici anni. In un giro enfatico, questa potrebbe essere la trama che lega gli eventi di The Last of Us, se non fosse che dietro c'è un dramma collettivo e privato strutturato come un diario di viaggio in grado di delineare le scorie lasciate da una catastrofe avvenuta vent'anni prima.
Un orizzonte, affrontato dalla rabbia e dalla consapevolezza dei due protagonisti, Joel (Pedro Pascal) e Ellie (Bella Ramsey), che portano alla luce il (nuovo) potere centralizzato e scaturito dai concetti cardine del Ventunesimo Secolo: il controllo sociale e la paura diffusa. Che sono in qualche modo i veri elementi gestionali della sceneggiatura (e quelli su cui poggia oggi il concetto politico), facendo chiudere il cerchio del realismo applicato ad un panorama (speriamo!) fantascientifico. Ma il centro naturale della serie è, naturalmente, il legame surrogato padre-figlia che intervalla il percorso, tra l'altro riempito di numerosi personaggi minori - tra cui il solitario Bill di uno splendido Nick Offerman - inseriti nell'ecosistema sconquassato, scandito dalle tonalità oscure dilaniate da squarci di una metaforica luce.
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Tra speranza e paura
Perché poi il lungo e impervio cammino di Joel e Ellie equivale ad una lettura sociale e quanto mai politica, legata tanto al concetto capovolto di patriarcato (è Ellie, immune all'infezione, a proteggere Joel, e non viceversa!) quanto ai nuovi allineamenti di pensiero, ghettizzati tra le mura pattugliate di numerose mini-fortezze dalle sfumature marcatamente medievali. Insomma, una sorta di veduta antropologica (on the road) su una diffusa sensazione post-traumatica-da-stress. Fuori, in una Boston invasa dalla vegetazione, c'è l'ignoto, il pericolo, ombre oscure di una terra inospitale, mangiata dagli infetti che, a loro volta, sono stati divorati dal fungo cordyceps (davvero esistente in natura) rendendoli delle mostruose e ripugnanti micosi difficilmente estirpabili. Nonostante questo, lo scopo di Joel ed Ellie è scoperchiare il nuovo ordine sociale e perseguire una flebile speranza che potrebbe portare al vaccino.
Sostenuta dall'emotività anarchica dei personaggi quanto dalla tecnica produttiva (e la colonna sonora è dinamite), proseguendo tra paternità, protezione e prerogative, The Last of Us è una serie d'impatto e di impeto, pensata innanzitutto come un efficace racconto di narrazione seriale, affiancata da un allestimento visivo inquietante quanto affascinante, che rispecchia in pieno il design di un fungo che sembra non conoscere la morte. Ed è proprio la morte a legare indissolubilmente gli eventi, i legami, i rancori e gli umori.
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Ma se non può esserci morte senza la vita, allora la serie di Craig Mazin e di Neil Druckmann non rinuncia a cercare la bellezza in piccoli e fondamentali dettagli, rendendola in qualche modo protagonista: un vecchio orologio, un rotolo di carta igienica, lo stupore di Ellie davanti alla carcassa di un aereo, oppure le anatre che popolano un albergo allagato o un branco di giraffe che corrono libere in una foresta cittadina. Se la vita trova sempre una strada, qui c'è il senso che insegue la bellezza e la perseveranza nel bel mezzo della disperazione, aggraziando i contorni desolanti e rivelando le ragioni che spingono Ellie e Joel ad andare avanti, affrontando gli istinti selvaggi di un mondo che urla in silenzio. Uno spettacolo talmente coinvolgente che ci siamo scordati da dove provenga. Appunto.