In un articolo di gameinformer.com di luglio 2015 scritto da Ben Hanson veniva riportato un video in cui Neil Druckmann ricordava di aver definito nella sua testa in maniera piuttosto chiara la propria filosofia di scrittura prendendo spunto da una frase detta da Cory Barlog, ora direttore creativo di SIE Santa Monica Studio, conosciuto ai più per il suo lavoro in diversi titoli di God of War (Bafta nel 2009), durante una loro conversazione. La definizione che colpì l'attuale co-CEO della Naughty Dog era più o meno questa: "Storia semplice, personaggi complessi."
Nel video parlava del suo lavoro per il quarto capitolo di Uncharted, esprimendosi anche sulla collaborazione con due penne molto importanti. Di fatto solo alla fine dell'intervista si lasciava andare sullo status di lavorazione della seconda parte di The Last of Us. Il che era giusto, visto il periodo e il focus giornalistico, anche se la maggior parte dei lettori era più interessata a questo piccolo extra rispetto al resto. E come dar loro torto? Probabilmente chi scrive era tra le loro fila.
Oggi, marzo 2023, il mese dell'uscita della versione PC del remake con veste grafica aggiornata della Part 1 del gioco (28 marzo per essere precisi), abbiamo appena assistito alla conclusione di quello che è stato il "miracolo" tanto sperato da chi attendeva un adattamento riuscito dal videogame allo schermo dopo diversi fallimenti o operazioni poco felici. Più di un motivo per sperare che qualcosa si potesse fare di buono ad onor del vero ci fu già con l'uscita di Arcane su Netflix, ma in quel caso ci fu un percorso di scrittura praticamente opposto a quello adoperato da HBO, dato il tipo di gioco e il tipo di adattamento richiesto. Dal trovare un fil rouge all'interno di un cosmo nel rispetto della sua mitologia a ripercorrere un sentiero preciso e già ampiamente battuto.
La sensazione attuale (a breve uscirà l'attesissimo film d'animazione di Super Mario) è quella di stare potenzialmente vivendo un momento di svolta. Quindi perché non rovinarsi la vita interrogandosi su come la scrittura di Neil Druckmann possa essere stata una chiave del successo dell'adattamento e analizzare il lavoro fatto per la serie co-creata da Craig Mazin? O fare così o smettere di scrivere e godersi l'attimo, ma poi l'attimo chi se l'è mai goduto in fin dei conti.
Persone, non personaggi
Spesso si è incappati in queste ultime settimane nel leggere e/o ascoltare la solita battuta: "The Last of Us è riuscita perché la produzione ha avuto la brillante idea di coinvolgere il creatore del materiale originale." Il che è senza dubbio vero, anche se questo da solo ovviamente non poteva essere sufficiente.
I rischi potevano essere quelli di trovarsi di fronte ad un creativo con inesperienza con il mezzo audiovisivo o troppo attaccato alla sua opera per piegarla di fronte ai bisogni del nuovo formato. Anche il difficile rapporto con la produzione: troppa libertà autoriale o magari troppi vincoli. Insomma qualsiasi evenienza che poteva portare alla manifestazione della paura più terribile e recondita di tutti i videogiocatori: ma davvero serve un adattamento televisivo di The Last of Us?
Serve nella misura in cui la storia di Joel e Ellie non è solo uno straordinario atto di un filone letterario proveniente da Lone Wolf and Cub passando per Cormac McCarthy e via dicendo, ma perché rilegge in modo originalissimo l'idea del videogame zombie e di genere survive, introduce tutta quanta una serie di figure e di discorsi sul genere sessuale che nel campo videoludico nordamericano non sono state affrontate con questa forza e, infine, perché vanta una storia che è in grado di parlare straordinariamente della società in cui viviamo e delle persone che rischiamo di prendere ad esempio o che, banalmente, potremmo diventare. Persone, appunto, non personaggi.
Le persone non rispettano nessun tipo di codice epico, tropo o archetipo preciso, le persone rispettano solo l'autenticità (in teoria). Ecco perché unicamente la loro rappresentazione permette di cogliere i grigi che fanno appassionare lettori, giocatori, spettatori, fruitori, anche loro malgrado a volte. I loro dilemmi morali, le loro scelte, le loro increspature, le loro ferite, le loro debolezze e via dicendo, sono l'ingrediente che nessuno schema strutturale, per quanto utile e collaudato, può riproporre a pieno.
Questa è stata sempre la chiave della fortunata penna di Druckmann ed anche uno dei motivi per cui The Last of Us è stato da sempre uno dei videogiochi potenzialmente più opportuni per essere adattato (con buona pace di Hideo Kojima), quello e la storia semplice. Un tronco solido, unico, affidabile (non banale eh) su cui poter costruire tutte le varie ramificazioni del caso, ognuna una persona, ognuna una situazione, ognuna una relazione. Questo è The Last of Us.
The Last of Us, tra paura e speranza: la serie vista da chi non conosce il videogioco
Amore e curiosità
L'adattamento è giocato sull'amore per il materiale originale e sulla curiosità dei due autori. Curiosità di recuperare idee passate e poi scartate (la nascita di Ellie), di trovare strade alternative (Bill e Frank, la storia di Sam e Henry), di porsi altre domande sui personaggi (la comunità di David, la storia di Tess, la paternità di Tommy). Curiosità, soprattutto, di interrogarsi riguardo il pubblico di riferimento, che è un altro esempio dell'intelligenza di chi scrive.
La stagione, dopo tutto, si apre con la preoccupazione di giustificare scientificamente la pandemia proprio perché noi tutti ne abbiamo vissuta una. Proprio per adempiere a questo compito Druckmann e Mazin propongo una struttura narrativa che poi non lasceranno più, quella che prevede un continuo rimando al passato, quando citandolo con un effetto ping pong, quando evocandolo tramite la scenografia (meravigliosa) e i discorsi dei personaggi. The Last of Us è, di fatto, una serie che riflette costantemente sul passato. Il tutto incastonato in una struttura episodica sempre costruita circolarmente, ricamata intorno ad un tema centrale. Delle coordinate, anche esplicite, per orientarsi e innestare su di esse tutti i vari approfondimenti. "Storie semplici, personaggi complessi."
L'amore viene di conseguenza, regola tutto quanto. Un amore che si è rivelato talmente grande da portare Mazin alla decisione di coinvolgere la figlia, facendole cantare Never Let Me Down Again alla fine di Kin, un momento in cui Ellie sembra dedicarla a Joel. L'amore che è ovviamente l'amore di Druckmann per il proprio mondo, ma anche per il punto di vista che ha sempre usato per raccontarlo: mai stretto, ma sempre democratico, ampio. Un punto di vista che è la forza di The Last of Us e che ha portato la serie HBO a trasformarsi in una sorta di grande ecosistema dove ambientare le storie di una umanità disperata e estremizzata, alle prese con un mondo che ha distrutto con le sue mani.
Altro atto di amore è, appunto, quello verso gli infetti, che, sebbene siano molto pochi rispetto a quello che ci si potesse aspettare, sono descritti con una delicatezza che dà loro un senso nuovo rispetto al videogioco. Essi sono ritratti quasi come agenti di questo mondo in rovina, una sorta di grande espressione di una Natura che vuole riprendersi il pianeta. Sono il contraltare dell'umanità divisa, espressione di una manifestazione di unità, amore collettivo, senso di riappropriazione comune. Entità avvolte da una sorta di velo siegeliano, se ce lo concedete.
The Last of Us, perché è l'evento televisivo del 2023
Le fragilità nell'adattamento ci sono, ovviamente. E non si parla dei cambiamenti che rendono il Joel di Pedro Pascal più fragile o attaccabile, quello rientra nell'idea di curiosità (e anche coraggio). Si parla dell'accelerazione degli ultimi episodi (non sappiamo però dei veti produttivi), delle claudicanti esplosioni di violenza, a cui la serie più volte sembra faticare a dar sfogo, e del bisogno di dichiarare l'evoluzione del rapporto tra i protagonisti, che invece nella controparte ludica nasceva e prendeva forma in modo più epidermico e meno dialogato. Il gioco, oltre ad avere una durata considerevolmente maggiore, vive (ovviamente) della sua parte di gameplay, che la serie ha quasi sempre deciso di tagliare e riposizionare, cercando i tempi della ballata più che della maratona. Ma, anche qui, questione di mezzi e di tempistiche.
The Last of Us ha segnato una grande prima volta, soprattutto se si pensa in termini di ricezione da parte del grande pubblico, ed è solo l'inizio, perché se la parte 2 è forse il vero capolavoro di Druckmann e soci allora lo sforzo dell'adattamento dovrà essere ancora maggiore rispetto al passato e non solo per sorprendere il pubblico, ma anche per essere semplicemente di nuovo all'altezza.