A tre anni di distanza dall'eccezionale Mank con Gary Oldman, David Fincher torna finalmente alla regia con questo mirabolante The Killer, ancora una volta su Neflix. A quanto pare il colosso dello streaming resterà la casa del filmmaker per molto tempo, essendo uno dei nomi che hanno ricalibrato obiettivi e qualità della piattaforma a partire da Mindhunter (purtroppo accantonata dopo appena due stagioni). Superando il dramma biografico in bianco e nero e tornando al suo cinema ideale, Fincher confeziona con The Killer il suo primo - e forse ultimo - cinecomic d'autore, adattando il premiato fumetto francese di Matz e Luc Jacamon secondo sensibilità stilistiche più che identitarie e riconoscibili.
Un thriller dai tratti formali chirurgici e di asettica (ma voluta) emozione che rivela la misura esatta del suo esistenzialismo psicologico e del pensiero ossessivo-compulsivo per un'idilliaca perfezione nei primi e straordinari 20 minuti. Getta le basi della "tesi dell'assassino" quasi fosse un saggio breve cinematografico, lasciando infatti successivamente spazio alle contro-argomentazioni fattuali e arrivando infine a una piccola riflessione conclusiva che sintetizza il tutto con una frase ad effetto e un poi un tic. Il senso? Proviamo a scoprirlo insieme in questa spiegazione del finale di The Killer. [ATTENZIONE, SPOILER A SEGUIRE]
L'esecuzione è tutto
Così cinico e nichilista - in apparenza - da non avere neanche un nome, il killer interpretato da Michael Fassbender. La sua filosofia di vita e professionale sembra l'unica perseguibile. L'azione, per come concepisce l'omicidio, è il momento meno rischioso: sono "i giorni, le ore e i minuti precedenti e successivi all'azione" ad essere i più pericolosi. Per questo l'essenziale è la preparazione, o come recita la tag line del film: "L'esecuzione è tutto". E lo è davvero. La cura delle irrilevanze è la sola via percorribile. Il resto è nulla.
Ogni dettagli conta: pianificare e revisionare ogni cosa, anche solo per occupare il tempo che intercorre dalla preparazione all'azione vera e propria, che può essere molto lungo. La noia dell'attesa fa parte del lavoro, ma "non fare nulla può essere davvero estenuante". Lo dice il killer stesso, che ammette di mal sopportare il dolce far niente e di accettarlo solo a fronte di uno specifico obiettivo. D'altronde fa parte del suo credo dell'assassino (fa sorridere che Fassbender abbia recitato in Assassin's Creed), una sorta di mantra che il nostro protagonista ripete ossessivamente a se stesso con ogni bersaglio differente:
Attieniti al piano. Gioca d'anticipo, non improvvisare. Non fidarti di nessuno. Mai concedere un vantaggio. Combatti solo se sei pagato per combattere. Niente empatia. L'empatia è debolezza. La debolezza è vulnerabilità. A ogni passo del percorso chiediti: "Io che cosa ci guadagno?". È questo il segreto, quello in cui devi impegnarti, se vuoi avere successo. Semplice.
Lui è così: preciso e distaccato. "È quel che è" - citando Braccio di Ferro - e non ammette complicazioni. La sua legge? Quella di Aleister Crowley: "Fai ciò che vuoi", guidato dalla sola verità dell'amore sottomessa alla ricerca della Vera volontà, che è poi quella di un proposito autentico e personale. Nessun destino, nessuna fortuna: serve conoscere se stessi fino ad accettarsi completamente. E il killer di Fassbender accetta di essere scettico e diffidente e che la vita non sia altro che un naturale percorso verso la morte. Non si schiera, non formula opinioni, non è indottrinato e lavora solo su proficua commissione senza servire alcun dio o bandiera. La sua efficienza deriva per intero da un solo fattore essenziale: "non gliene frega un ca**o". Per lo meno, questo è ciò che pensa lui.
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Uno dei molti
Dall'incarico a Parigi al rifugio a Santo Domingo, dall'Avvocato a New Orleans al Bruto della Florida, dall'Esperta di New York al Cliente di Chicago: quello di The Killer è un viaggio a ritroso nel credo del protagonista destinato sia a validarne l'efficacia sia a dimostrare l'incontrovertibile verità di una perfezione mai raggiungibile. A Parigi sbaglia il colpo, a Santo Domingo non prevede l'attacco, a New Orleans non centra i tempi, in Florida si salva per un pelo e a Chicago decide di rischiare. Quando commette l'errore iniziale in Francia, le tessere del Domino della sua carriera cominciano a cadere e a disvelare lentamente l'uomo dietro l'assassino, che ha una casa, una compagna e una vita al di fuori del suo lavoro.
È senza dubbio distaccato, ma nel privato è senza maschere, senza segreti, tanto che Magdala - la ragazza - conosce la sua attività e ne protegge l'identità da eventuali nemici. E il killer tiene a Magdala. Dove inizia e dove finisce, allora, la sua freddezza, il suo nichilismo? Seguendo il ragionamento, da lui e con lui. Guardando sempre a Crowley, è lui la stella più importante del suo universo. Lui fa le regole, e quelle del credo sono le più importanti. Ripete il mantra non perché si aspetta che tutto andrà per il verso giusto rispettando l'esecuzione, ma perché sa che tutto potrebbe andare nel verso sbagliato nonostante la preparazione, cosa che puntualmente accade.
In quel momento i suoi principi diventano la sola cosa in grado di salvarlo da cattura, ritorsioni o morte certa. Non si uccide il bersaglio? Si rispetta comunque il piano. Colpiscono la compagna? Si inizia a giocare d'anticipo per stanarli e ucciderli. Le vittime provano ad essere utili e accondiscendenti per avere salva la vita? L'empatia è una debolezza. Uno scontro difficile? Non improvvisare, combatti come sai fare. Minacciare un cliente facoltoso? Ha comunque il suo prezzo. Nel caso del killer è il pensionamento, ad esempio.
Ma anche la vendetta. Non lo uccide per comodità, ovviamente, ma un tornaconto c'è sempre. Alla fine lo attende il dolce far niente a Santo Domingo, accanto alla sua ragazza. Quell'ozio che difficilmente sopporta. Stare con le mani in mano senza un obiettivo. "Fai di tutto per essere uno dei pochi", dice inizialmente. Uno dei pochi che sfruttano i molti, s'intende. In effetti come killer è davvero uno di questi, ma come uomo? Il discorso è più complesso. Subentra "il bisogno di sentirsi al sicuro", che è poi un terreno insidioso, incerto. Ma lui sa di essere il solo artefice della propria esistenza e delle proprie azioni, senza fato e senza Dio, ossessionato da una perfezione irraggiungibile ma consapevole del rigido dominio del controllo, che è l'unica opportunità di salvezza (dalla noia, dal futuro, dalla morte). Sa anche che "il solo percorso di vita è quello alle nostre spalle", come la sua preziosa carriera che lo rendeva uno dei proverbiali pochi. Sa tutto, l'ex-killer professionista, eppure non riesce ad accettarlo pienamente, intaccando così quell'impenetrabile armatura di placido nichilismo con un piccolo ma deflagrante spasmo del volto, rivelandosi in tutta la sua accidia non richiesta uno dei molti.