Nell'arco dell'ultima ora dei duecentonove minuti di The Irishman avviene una breve conversazione fra il personaggio eponimo, il sindacalista e sicario mafioso Frank Sheeran, e il boss italoamericano Russell Bufalino. Si tratta di una scena decisamente semplice: eppure, per ragioni che appariranno evidenti durante la visione, lo scambio di dialoghi fra i due uomini e le espressioni dipinte sui volti di Robert De Niro e Joe Pesci riescono a colpire con estrema forza, dando vita a una delle pagine cinematografiche più dolorose che si possano immaginare. E trasformando di colpo un grande film in un film maestoso: l'ennesima vetta nella carriera del suo autore, l'inarrivabile Martin Scorsese.
Perché da quel momento in poi, fino allo scorrere dei titoli di coda, The Irishman spicca il volo verso un epilogo di bellezza lancinante: un "lungo addio" (in senso letterale) di cui conosciamo o sappiamo intuire ogni tappa, ma che non per questo risulta meno emozionante. E non si tratta soltanto di un addio fra i protagonisti (e dei protagonisti), ma del crepuscolo di un genere, il gangster movie, che proprio in Martin Scorsese ha avuto uno dei suoi araldi più celebrati. Una consapevolezza in grado di rendere The Irishman un'opera ancora più personale e malinconica, se collocata all'interno della produzione di un regista che, alla soglia dei settantasette anni, non ha perso la voglia di rinnovarsi e di mettersi in gioco.
L'ultima tentazione di Martin Scorsese
Del resto, che Martin Scorsese sia il più bravo di tutti non è una novità, e non c'era bisogno di The Irishman per ricordarcelo. Ma nel 2019, a oltre cinquant'anni di distanza dal un esordio furioso e slabbrato (Chi sta bussando alla mia porta?, 1967), il regista newyorkese sta raccogliendo l'entusiasmo incondizionato della critica con un progetto di ambizioni monumentali: per il costo, innanzitutto, con un budget da record stimato attorno ai centosessanta milioni di dollari; per la scelta (e, per certi aspetti, l'umiltà) di farsi finanziare da Netflix, l'unica compagnia disposta a elargirgli una somma di tale entità; per la portata narrativa di un'epopea criminale che copre un arco di più di mezzo secolo, resa possibile attraverso l'uso della tecnica digitale del cosiddetto de-aging, un'altra sfida inedita per Scorsese.
Distribuita venerdì scorso nei cinema statunitensi e disponibile nelle sale italiane per soli tre giorni, dal 4 al 6 novembre, dopo la presentazione al Festival di Roma 2019, la pellicola sceneggiata da Steven Zaillian sulla base del libro I Heard You Paint Houses di Charles Brandt approderà su Netflix il 27 novembre (qui il link alla nostra recensione di The Irishman). Inutile sottolineare come si tratti di un passaggio di importanza capitale nella dicotomia fra la distribuzione tradizionale e lo streaming: un oggetto di discussioni ed analisi, ma anche una potenziale cartina al tornasole di come stiano mutando le modalità di fruizione dei film. Ed è paradossale che, al cuore di questo dibattito sul futuro del cinema, ci sia appunto un'opera immersa nel passato e diretta da un veterano di Hollywood, ma imperniata su una riflessione, lucidissima e impietosa, riguardo il peso del tempo e della memoria.
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Il canto del cigno del gangster movie
The Irishman è un gangster movie, è vero, ma non potrebbe essere più lontano dagli altri "romanzi criminali" della filmografia scorsesiana: all'energia furibonda di Boxcar Bertha e Mean Streets, alla frenesia selvaggia e allucinata di Quei bravi ragazzi e Casinò, qui si sostituiscono un ritmo e un 'respiro' del tutto differenti. Senza abbandonare la poetica del regista, la sua osservazione laica di un'umanità dolente, ma arricchendola di nuove sfumature. Nei personaggi di The Irishman, come in tanti, precedenti antieroi del cinema di Scorsese, la brama di vita sconfina nella sete di potere, l'etica personale è assediata in un conflitto lacerante e neppure i sentimenti più profondi possono sottrarsi alle regole di un meccanismo feroce, di cui i protagonisti sono contemporaneamente carnefici e vittime.
Sul banco di prova, in questo caso, ci sono rapporti di lealtà e di amicizia: quello di Frank con il suo mentore, Russell Bufalino, e quello stretto dall'uomo con il famigerato Jimmy Hoffa, leader del sindacato legato a doppio filo alla criminalità organizzata. A prestare il volto a Jimmy Hoffa, in varie fasi della sua vita, è uno stupefacente Al Pacino, che domina la scena ogni qual volta appare sullo schermo: una performance istrionica a cui fanno da contraltare le interpretazioni più sommesse e sotto le righe di Robert De Niro (di nuovo insieme a Scorsese a ventiquattro anni da Casinò) e di un ritrovato Joe Pesci, che si riconferma un attore magnifico a cui bastano appena uno sguardo o un'inclinazione delle labbra per suggerirci la natura e i pensieri del suo personaggio.
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Martin Scorsese: il più grande, ieri e oggi
In The Irishman, dunque, c'è tantissimo del Martin Scorsese che conosciamo e che amiamo: i temi, le suggestioni, perfino i volti-simbolo (Pesci, De Niro, ma anche Harvey Keitel), a cui si unisce per la prima volta un'altra leggenda vivente quale Al Pacino. Ma c'è anche la dimostrazione di una versatilità ancora più sorprendente alla luce di quanto Scorsese ha già dietro le spalle: perché lui è il regista che dopo aver contribuito a fondare la New Hollywood, dopo aver realizzato capolavori seminali come Taxi Driver, Toro scatenato, Quei bravi ragazzi e L'età dell'innocenza, dopo una coppia di kolossal quali Gangs of New York e The Aviator e dopo il trionfo di The Departed, soltanto nell'ultimo decennio, a partire da un thriller di alta classe quale Shutter Island, ha dato prova di una vitalità e di una fecondità creativa davvero senza pari.
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Mettendo da parte la sua ampia produzione in campo documentaristico, a cui proprio quest'anno si è aggiunta l'affascinante rievocazione del Rolling Thunder Revue di Bob Dylan (sempre per la scuderia di Netflix), dal 2011 a oggi Scorsese ci ha regalato quattro film diversissimi fra loro, ma ciascuno a suo modo straordinario: l'omaggio carico di nostalgia e di passione cinefila al potere mitopoietico della settima arte di Hugo Cabret, con il suo magistrale utilizzo del 3D; la travolgente galoppata nel cuore nero del capitalismo americano di The Wolf of Wall Street, il suo maggiore successo di pubblico; la sofferta indagine spirituale di Silence, dramma storico in miracoloso equilibrio fra intimità e tensione; e infine, il canto funebre dell'epica gangster dell'elegiaco The Irishman. Basta e avanza, insomma, a fugare ogni dubbio sull'identità del più grande regista vivente: è Martin, sempre lui, il più bravo di tutti.