Che il regista danese di Dogville e Le onde del destino sia un grande provocatore lo sappiamo tutti. Così come sappiamo che da sempre, ma ancor di più nell'ultimo decennio, i suoi film sono spesso realizzati soprattutto con l'intento di disturbare i suoi spettatori, farli incazzare, costringerli ad uscire dalla sala prima del tempo. Che poi è esattamente quello che è successo con questo La casa di Jack, che segna il suo ritorno a Cannes a sette anni di distanza da Melancholia e dalle dichiarazioni "naziste" che portarono il festival a dichiararlo persona non grata.
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Si potrebbe pensare quindi che non ci sia nemmeno da sorprendersi più, eppure Lars Von Trier riesce sempre a toccare le corde giuste in fatto di provocazioni, tanto che queste finiscono spesso col prendere il sopravvento sul film stesso. L'impressione però è che per il regista tutto questo non solo non rappresenti un problema, ma che anzi i suoi ultimi film siano veramente realizzati al solo scopo di continuare a raccontare la propria anima "malata".
Turbo ergo sum
Se tanti anni fa, per sua stessa dichiarazione, Antichrist aveva rappresentato per lui una sorta di seduta psicanalitica, ci permettiamo di pensare a questo suo nuovo film come ad una vera e propria confessione. Falsata e costruita a tavolino come ogni suo film ovviamente, ma comunque una sorta di nuovo manifesto del suo cinema in cui arte e crimini sono in fondo quasi la stessa cosa.
Non è difficile ritrovare aspetti del regista nel protagonista Jack, interpretato da un ottimo ed inquietante Matt Dillon, così come non si può non pensare al suo "misterioso" interlocutore interpretato da Bruno Ganz come ad uno dei tanti critici/spettatori/hater che in qualche modo Lars vuole shockare. E vuol in qualche modo convincere, facendogli capire che lui, Jack/Lars, non è un criminale/regista come tanti altri e che la sua arte non può lasciare indifferenti.
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The Art That Lars Built
Da questo punto di vista è difficile non ammettere che il buon vecchio Lars continua ad avere ragione. E che le sue opere, per quanto discutibili e "disoneste", rappresentino ancora oggi un qualcosa di mai visto prima. Perché se è vero che di film su serial killer ne abbiamo visti tanti, raramente il processo mentale di uno psicopatico era stato affrontato con tale crudezza e ironia e con altrettanta efficacia. In questo senso il suo nuovo film si pone a metà tra il suo stesso Nymphomaniac, di cui ricalca la struttura a racconto ed episodica, e lo sconvolgente romanzo (poi anche film) American Psycho.
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Così come il romanzo di Bret Easton Ellis si apriva e chiudeva citando l'inferno dantesco, lo stesso fa Von Trier, mostrandoci un vortice di disperazione e sofferenza che probabilmente rappresenta lo stesso da cui non sembrerebbe più riuscire ad uscire. Per molti potrebbe essere un vortice autodistruttivo, uno che trasforma la sua arte in un qualcosa a metà tra l'autocelebrazione e l'autoflagellazione. Tanto che quando a metà film compaiono scene di tutti i suoi film non ci si stupisce nemmeno più, perché in fondo il cinema di Lars Von Trier è esattamente questo, uno sguardo pornografico e perverso dentro se stesso. Vale la pena di seguirlo ancora? Forse no, ma nonostante tutto diventa impossibile ignorarlo. E difficile non ammettere che anche questa volta a vincere è comunque lui.
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4.0/5